Calorie in etichetta: pro o contro?

Il Regolamento N.1169/2011/UE art.16 comma 4 recita testualmente “fatte salve altre disposizioni dell’Unione che prevedono un elenco degli ingredienti o una dichiarazione nutrizionale obbligatoria, le indicazioni di cui all’articolo 9, paragrafo 1, lettere b (elenco degli ingredienti) e l (una dichiarazione nutrizionale), non sono obbligatorie per le bevande con contenuto alcolico superiore all’1,2 % in volume.”

Nel 2011, si era dunque deciso di mantenere lo status quo, ma ora la Commissione UE torna sui suoi passi e riconsidera la possibilità di imporre una dichiarazione nutrizionale anche per vino, birra, superalcolici. Non è un segreto che l’obbligo di riportare determinati tipi di informazioni in etichetta è frutto della mediazione d’interessi spesso contrastanti di eterogenei gruppi di pressione: produttori, consumatori, categorie professionali, associazioni che cercano ciascuno un proprio vantaggio. E’ altrettanto noto che la costruzione di un’etichetta equilibrata dovrebbe sempre rispondere a tre obiettivi: garantire una concorrenza leale, informare, ridurre i rischi per la sicurezza e la salute.

L’elenco degli ingredienti e le informazioni nutrizionali rientrano in questo ultimo ambito: dovrebbero infatti aiutare i consumatori a scegliere bene e spingere i produttori a migliorare l’offerta.

In diversi Paesi, il problema dell’etichettatura nutrizionale sulle bevande alcoliche è stato risolto lasciando la decisione alle aziende. Dal 2013, in USA il TTB (Alcohol and Tobacco Tax and Trade Bureau) ha ammesso l’uso volontario di una serving facts label che ripete il grado alcolico e indica il volume di una porzione media riferendovi poi la quantità di alcol espressa in grammi, le calorie e il tenore di carboidrati. Inoltre, da alcuni mesi, i ristoranti devono indicare sui menù il contenuto calorico di cibi e bevande. Per i vini, le linee guida FDA ammettono la segnalazione dei valori medi caratteristici delle diverse tipologie.

Dalla vendemmia 2016 la TWE (Treasury Wine Estates – Australia) renderà disponibili le informazioni nutrizionali di tutti i suoi vini. Il programma prenderà il via in Europa, seguiranno America, Asia e infine la produzione riservata al mercato interno. I dati non saranno sull’etichetta, ma quest’ultima riporterà l’indirizzo di un sito dove reperirli. L’azienda potrà così più facilmente aggiornare i dati potenzialmente diversi di vendemmia in vendemmia e di cantina in cantina.

Il web è una soluzione sensata sia perché in molti Paesi l’etichetta dei vini è soggetta a notifica o ad approvazione preventiva, sia perché i consumatori realmente interessati alle calorie cercherebbero comunque il dato in internet, correndo il rischio di incorrere in fonti poco attendibili. Le ricerche su Google che incrociano le parole “calories” e “wine” vedono gli Stati Uniti al primo posto, seguiti dal Regno Unito, Canada, Australia e Francia.

Nel comparto superalcolici e birra un’iniziativa similare è stata adottata da Diageo. TWE e Diageo sono grandi aziende con altrettanto grandi risorse per eseguire le analisi, molto più complicato imporre l’obbligo alle piccole cantine, anche se l’apporto calorico dei vini della medesima categoria non varia di molto. In media un calice di vino bianco secco con 11-14% alcol apporta da 120 a 130 calorie.

In futuro si sceglierà davvero il vino in funzione del suo contenuto calorico? Se così fosse assisteremo a una considerevole crescita delle quote di mercato dei vini dealcolati e dei vini secchi. Il Regno Unito è tra i principali sostenitori di una regolamentazione comunitaria anche se finora, aderendo al Public health responsibility deal concordato con il governo nazionale, le aziende britanniche hanno deciso di indicare in etichetta le unità di alcol per porzione ma non le calorie, temendo che questo dato si trasformi in un deterrente per il consumo.

In Italia, i produttori respingono l’idea di questo nuovo obbligo. Le cantine più piccole sono contrarie perché l’etichetta è il loro unico strumento di comunicazione, i produttori di vini pregiati temono una perdita d’immagine del prodotto di fatto assimilato a un junky food. Cosa accadrà?