La riscoperta del lavoro artigianale come possibile mezzo per battere la crisi è stato uno dei fenomeni più significativi dell’anno appena trascorso. Il fascino dell’artigiano, il confronto con i materiali e forme uniche identificano oggetti/prodotti “fatti a mano”. Il settore di riferimento alimentare o oggettistico non ha importanza, ma la rielaborazione creativa delle tradizioni, l’unicità e la personalizzazione del prodotto finito sono spesso stati citati come “l’uovo di Colombo” e convogliati tra gli indicatori importanti per guidare la ripresa. Secondo gli esperti, oltre a essere una grande risorsa per il nostro Paese, l’artigianato potrebbe rivelarsi per molti una scelta di vita appagante e ricca di soddisfazioni. La legislazione definisce con chiarezza cosa sia l’impresa artigianale e chi sia l’artigiano, ma il concetto di prodotto artigianale è molto più sfumato e lasciato alla libera interpretazione dei singoli. Si sono instaurati protocolli d’artigianalità, ma le aziende certificate sono pochissime e ciò che davvero conta è capire quali valori il consumatore consideri rilevanti. L’italiano medio interpreta l’artigianalità nel settore alimentare come una produzione numericamente limitata, caratterizzata dall’attenzione e dall’intervento diretto del produttore in tutte le fasi del processo produttivo, dall’assenza di additivi e conservanti. In un prodotto artigianale si evidenziano le caratteristiche sensoriali derivanti dalla tradizione di un territorio o le originali particolarità di sapori, colori e aromi non comuni. Un’artigianalità intesa come diversità e unicità. Tante aziende sostengono un’interpretazione un po’ più ampia dell’artigianalità; in questo nuovo mondo allargato, il focus sembra debba essere spostato dal prodotto al produttore: un prodotto può essere fatto ovunque, ma il produttore è e resta unico. La linea di demarcazione tra prodotto industriale e prodotto artigianale sarebbe quindi più concettuale che pratica. Secondo questo principio anche una piccola impresa potrebbe automatizzare le proprie linee di produzione e continuare a proporre un prodotto artigianale purché continui a rispettare la propria “arte”. Un’arte intesa come il “saper fare” che differenzia un prodotto da quello della concorrenza e lo rende ogni volta unico pur partendo dai medesimi ingredienti, o lo produce sempre uguale a se stesso anche in presenza delle piccole o grandi variazioni che caratterizzano la materia prima utilizzata. L’arte consisterebbe dunque nel saper gestire bene la tecnologia in funzione della “ricetta” e delle variazioni della materia prima di cui sopra. Ma può davvero l’industria essere un valido modello di riferimento per una cantina, una birreria o un frantoio artigianali? A mio parere no, perché il loro vero valore si basa sull’artigianalità del ciclo produttivo e sulla unicità del produttore. Industria e artigianato sono mondi, modi di essere, di proporsi e comunicare completamente diversi. Per anni in Italia abbiamo avvalorato l’idea che l’unica conoscenza economicamente rilevante fosse quella teorica, formalizzata, lontana dalla manualità. Oggi ci si è accorti dell’errore, si cerca di rimediare e ci si trova di fronte a un’operazione più complessa del previsto. Per anni si è ripetuto “dobbiamo investire in ricerca” perché artigianalità e produzioni manuali sono antieconomiche e sono un retaggio del passato. Ragionando diversamente e guardando all’artigianalità come a una risorsa, si può ottenere invece una fonte di innovazione di enorme portata. Sempre che si tratti di vera attività artigianale e non di un’artigianalità virtuale.