Un’azienda svedese produce birra utilizzando mais geneticamente modificato ed enfatizza nella pubblicità i risvolti positivi di tale scelta; negli USA nasce la BioBeer, una birra fermentata da lieviti GM capaci di arricchirla di resveratrolo, componente salutistico dei vini. I comunicati stampa di questo tenore sono sempre più frequenti, ma in Italia le parole “geneticamente modificato” continuano a fare paura e le uniche piante GM, “ufficialmente” coltivate nel nostro Paese, sono confinate nei laboratori di ricerca.È peraltro vero che l’Italia può decidere di non coltivare OGM ma, in quanto Stato membro della UE, non può vietare l’importazione e l’uso di prodotti autorizzati dalla normativa comunitaria. Nell’immaginario del consumatore italiano “qualità” e “intervento tecnologico su cibi e bevande” sono agli antipodi. Questa contrapposizione ha ragioni storiche, riconducibili a una concomitanza di eventi che vale la pena di ricordare. Si era alla fine degli anni ‘90, quando comparvero le prime estese applicazioni di OGM con riflessi sul settore alimentare. Si trattava di cereali per mangimistica, ossia commodities da produrre su larga scala, al minor costo possibile. Nello stesso periodo l’intera agricoltura era sotto i riflettori dei media per una lunga sequela di episodi e decisioni che disorientavano e spaventavano i consumatori (i primi esperimenti di clonazione, i polli e le uova alla diossina, la scoperta che la BSE può essere pericolosa non solo per il bestiame ma anche per l’uomo, la discussione sulla PAC che avrebbe poco dopo portato a promuovere la ricerca e l’innovazione tecnologica in agricoltura e instaurato il disaccoppiamento degli aiuti alle aziende agricole, con conseguente erogazione di un sostegno economico ai produttori indipendentemente dalla produzione). Erano anche gli anni delle iniziali forti prese di posizione da parte di movimenti ecologisti e no global. A tutto ciò si aggiunga che i primi OGM erano frutto di ricerche e brevetti di multinazionali statunitensi e la loro diffusione avrebbe potuto penalizzare l’agricoltura comunitaria. Fino a allora i miglioramenti in agricoltura erano affidati a incroci e a selezioni varietali dagli esiti poco certi; le tecniche di ingegneria genetica da cui scaturivano gli OGM avrebbero invece dato risultati più precisi e prevedibili. Oggi, i biotecnologi favorevoli agli OGM li ritengono più sicuri degli omologhi prodotti tradizionali, perché sono sottoposti a controlli più stringenti, perché sono coltivati senza ricorrere ai pesticidi, perché proteggono dai parassiti anche le eventuali vicine coltivazioni convenzionali. Meno parassiti significa anche riduzione della probabilità di sviluppo di muffe e di conseguenza, minori concentrazioni di micotossine, sostanze potenzialmente cancerogene. C’è chi osa auspicare l’applicazione delle biotecnologie a salvaguardia di alcuni “ingredienti” locali, la cui coltivazione è a rischio di scomparsa non solo a causa di virus e parassiti, ma anche per la scarsa competitività economica conseguente alla bassa resa di tali attività. L’ingegneria genetica potrebbe, in teoria, fare molto a tutela della qualità e della specificità delle varietà locali. Sembrerebbe arrivato il momento di impostare un dibattito più franco e oggettivo sugli OGM, per cercare di capire quanto i campi, l’industria alimentare, l’industria delle bevande e le tavole avrebbero davvero da guadagnare dall’aiuto della scienza.