Strategie di internazionalizzazione

Crystal ball with a bar chartL’internazionalizzazione è un passaggio obbligato per ogni imbottigliatore italiano che non voglia essere spazzato via. Nessuna azienda del beverage può pensare di restare confinata in patria, perché sarebbe esposta non solo alla concorrenza tradizionale ma anche a quella internazionale. L’ esportazione riduce la dipendenza da un unico mercato e permette di bilanciare i periodi di recessione nei singoli Paesi.

L’industria delle bevande esporta per allargare la base di mercato, incrementare il giro d’affari, aumentare i profitti. Quando l’entità delle vendite all’estero cresce al punto tale da compensare i costi fissi, l’impresa dispone di nuove risorse finanziarie e può sfruttare eventuali economie di scala. Esportando si scoprono nuove realtà, nuovi modi di operare, nuove soluzioni implementabili nei diversi mercati di riferimento. L’esperienza, le competenze e le risorse acquisite grazie all’export, costituiranno un vantaggio competitivo importante.

Come esportare
Portare dapprima i prodotti ed eventualmente, in seguito, parte della produzione in uno o più mercati esteri ha una complessità paragonabile a quella prevista per l’avviamento di una nuova impresa e il processo deve essere pianificato in modo altrettanto meticoloso. Per stimare la validità di un progetto è necessario valutare con attenzione le barriere all’ingresso, nonché le risorse e il tempo necessari a raccogliere informazioni, attivare contatti, “esplorare” il Paese di destinazione della merce, valutare se il prodotto possa essere accettato tal quale o debba essere adattato alle esigenze locali. L’apertura dell’azienda ai mercati esteri non può essere condotta solo in funzione delle occasioni che mano a mano si presentano. Vendere all’estero implica competenze e cautele. Taluni si accorgono di non averne a sufficienza solo quando nasce un problema. Sull’onda dell’entusiasmo, le aziende che si muovono all’estero in maniera opportunistica e di conseguenza destrutturata, tendono a sottovalutare tali rischi e non impostano un’organizzazione atta a prevenirli ed affrontarli. Anche per le aziende che avessero deciso di dotarsi di un ufficio export, non è detto che le occasioni sporadiche siano sempre le migliori. A parità di risorse impiegate, l’imprenditore dovrebbe chiedersi se valga davvero la pena di inseguire le singole proposte o non sia più razionale sfruttare in modo sistematico l’organizzazione e le competenze acquisite. L’internazionalizzazione deve essere progettata e seguita mediante un dettagliato piano di lavoro.

Valutare la dimensione della domanda

Una domanda con un buon potenziale di crescita è il solo presupposto che possa indurre ad investire risorse finanziare ed umane in un progetto vocato all’export di prodotti e in subordine all’apertura di consociate estere. Notoriamente il commercio è impostato sulla differenziazione dell’offerta e sulla somiglianza della domanda, in sintesi, la gamma delle esportazioni potenziali è sovrapponibile a quella delle importazioni potenziali. Paesi con domanda similare tendono a produrre gli stessi beni e a scambiarli tra loro; Paesi con domanda del tutto differente hanno produzioni di scarso interesse reciproco ed il loro interscambio è limitato. Per selezionare i Paesi verso i quali esportare occorre valutare se vi siano delle possibilità illimitate di differenziazione, reale o presunta, dei prodotti che possano facilitare lo scambio di beni praticamente identici. Si pensi per esempio al reciproco import – export di vini, birra o acqua tra USA e UE. In assenza di differenziazione dei prodotti, il vantaggio potrebbe derivare dalla maggior disponibilità di una determinata materia prima in un certo Paese, dalla superiorità tecnologica, dalle diverse competenze manageriali o più semplicemente dalle economie di scala. Altri spunti di attrazione possono essere le agevolazioni fiscali e gli aiuti governativi che premiano chi avvia una nuova attività e così facendo sostiene l’economia e la comunità di un determinato territorio.

Gli imbottigliatori italiani possono oggettivamente contare su diversi plus: il poter vantare il Made in Italy abbinato o svincolato da un marchio famoso, un know how specialistico, la capacità di raccogliere capitali, le economie di scala, l’integrazione di filiera. Tali aspetti aiutano l’azienda a controbilanciare gli svantaggi che tradizionalmente penalizzano l’export rispetto alla produzione nazionale. I concorrenti locali sono infatti favoriti dalla maggior conoscenza del mercato e del contesto e dalla maggior facilità di rapporti con le istituzioni e gli altri operatori locali.

Esportare o produrre in loco

L’impresa sceglierà la via dell’esportazione o deciderà di produrre direttamente all’estero a seconda della tipologia di prodotto (Made in Italy o globale) e delle condizioni del mercato di destinazione. Qualora si optasse per la produzione in loco si dovrà capire se sia preferibile avviare un proprio stabilimento o cedere delle licenze a produttori locali. Si privilegia l’intervento diretto quando si può contare su know how specialistico e altri asset intangibili difficilmente valorizzabili tramite la cessione di licenze. Il termine export evoca la grande impresa; un assioma non del tutto vero per l’Italia, dove l’economia è retta da piccole e medie aziende con un’elevata propensione al commercio internazionale, affrontato secondo uno schema comune: esportazione avviata sull’onda di una o di un numero limitato di opportunità; consolidamento ed esportazione sistematica di una o più referenze; creazione di una propria rete di vendita all’estero; produzione indiretta con concessione di licenze ad aziende estere; allestimento di impianti di produzione all’estero; fondazione di una società all’estero e coordinamento della gestione sul piano multinazionale.

Gli accordi nell’area marketing e vendite

Gli accordi che con maggior frequenza sostengono la prima espansione delle aziende italiane all’estero sono franchising internazionale, piggy back, joint ventures commerciali. Con il franchising internazionale l’impresa concede a uno o più franchisee locali l’utilizzazione dei propri prodotti e della propria formula organizzativa e commerciale. Cede di fatto il diritto di avvalersi del prioprio know how, del proprio marchio, delle proprie insegne nonché la possibilità di beneficiare di altre prestazioni e forme di assistenza volte a fare in modo che la gestione dell’affiliato sia più coerente possibile con l’immagine e con gli obiettivi strategici dell’affiliante.

L’affiliato si impegna a pagare delle royalties e si accolla gli investimenti necessari a realizzare o commercializzare correttamente i beni. Gli affiliati sono in Paesi diversi da quello dove ha sede l’affiliante e favoriscono l’espansione dell’azienda madre consentendole di mantenere il pieno controllo di determinate attività “critiche”. Questo tipo di accordo è tanto più efficace quanto più è possibile sviluppare prodotti e marchi standardizzati nei vari Paesi; solitamente chi adotta questa strategia ha un ampio portafoglio prodotti, allocati sui vari affiliati in base alle diverse esigenze del mercato. Con il piggy back il produttore o distributore locale offre i servizi della propria organizzazione distributiva a un’azienda interessata ad esportare.

Per evitare sovrapposizioni e interferenze il prodotto è scelto in modo da integrare la gamma del distributore locale. È una soluzione intesa ad aprire le porte di mercati difficilmente accessibili. Il contatto con il cliente estero è indiretto, mediato dal carrier che decide in piena autonomia le strategie commerciali. Altri imprenditori preferiscono affidare a un’azienda locale la produzione e mantenere il controllo delle attività di marketing, distribuzione e servizio al cliente. Sono i classici accordi di delocalizzazione che consentono di realizzare all’estero prodotti da vendere nei mercati nazionali ed internazionali.

I servizi per crescere all’estero

Cresce in Italia l’offerta di servizi per le piccole e medie imprese interessate ad esportare. I principali clienti di questi specialisti in outsourcing sono imprese con pochi dipendenti desiderose di superare i confini nazionali. Molte di queste aziende non possono permettersi un export manager interno e si rivolgono a società di consulenza che affiancano l’imprenditore per aiutarlo ad impostare una strategia efficace. Secondo le statistiche, le più interessate a questo tipo di servizi sono le aziende del Centro – Sud Italia con fatturati tra uno e venti milioni di euro.