Inchiesta

Birra artigianale in cerca di un’identità

[box bg=”#cccccc” color=”#000000′ title=”Sosteniamo un prodotto che il mondo c’invidia!”]
Jurij Ferri, birrificio artigianale Birra Almond ‘22

L’attivissimo mondo dei “birrifici artigianali italiani” è di recente costituzione. I primi birrifici, tra cui Baladin, sono nati nel 1996 quando non è stato più necessario disporre di un ufficio all’interno del birrificio per ospitare i funzionari dell’ufficio tecnico di finanza per i controlli relativi al calcolo dell’accisa e di conseguenza di non dover coprire i costi del funzionario incaricato. Questo detto, il resto della burocrazia, per i pionieri della birra “artigianale” italiana, era equiparata a quella prodotta dall’industria con ovvie conseguenze e problematiche superate, francamente, più dalla passione e dalla voglia di riuscire che dalla possibilità di un immediato guadagno.

Poco è cambiato da allora. Questo primo spunto parla chiaro ed evidenzia la lacuna legislativa che urge colmare quanto prima, ancor più in questi momenti di difficoltà economica. I microbirrifici sono oggi in Italia oltre 500 e creano un indotto interessante in termini di occupazione e di ricchezza. Non vanno abbandonati e non si deve assolutamente impedirne la naturale crescita a causa di una non chiara o inadeguata legislazione su cosa sia la “birra artigianale”.

Non è possibile apporre in etichetta la dicitura “birra artigianale” perché fuorviante nei confronti del consumatore. Ma non sarebbe forse meglio definire birra e birrifici artigianali? Il pubblico ha sufficientemente chiaro che cosa significhi in termini di qualità il concetto di birra artigianale. Occorrerebbe oggi, più che mai, che anche il legislatore ne fosse cosciente. Come? Definendo dei parametri qualitativi da rispettare, imponendo la non pastorizzazione del prodotto che dovrà restare “vivo” a differenza di ciò che avviene per ragioni distributive, per l’industria. Occorrerebbe fissare parametri quantitativi per definire un birrificio artigianale, anche se questo è un punto critico da dibattere.

Baladin proporrebbe alcuni spunti di discussione per definire l’“artigianale”. Prima di tutto il numero di addetti impiegati che non dovrebbe superare le 15 unità (come da definizione legislativa di attività artigianale); almeno il 50% della produzione dovrebbe essere viva, non pastorizzata e non microfiltrata. Questo premetterebbe di espandere il mercato del prodotto in fusto più delicato da gestire e conservare. Alle classificazioni di birra imposte dal legislatore (analcolica, light, normale, speciale, doppio malto) si potrebbe aggiungere il suffisso artigianale (per esempio: birra artigianale normale).

Si tratta di un punto di vista personale ma da qualche parte bisogna pur partire per tutelare con urgenza il nostro mondo. Una vera risposta/proposta dovrà però necessariamente arrivare dall’associazione di categoria.Quando è arrivata la sanzione per utilizzo in etichetta del termine “birra artigianale”, siamo rimasti sconcertati. Una situazione assurda essendo la nostra un’azienda con un permesso di produzione da parte dell’Ufficio Tecnico di Finanza come opificio artigianale; siamo per giunta iscritti alla Camera di Commercio come artigiani! La multa sembrava annullare quella che era la nostra identità. Identità nella quale abbiamo creduto fin da quando, 11 anni fa, è stato fondato il birrificio artigianale Birra Almond ‘22. Ricordo erano circa una trentina i birrifici artigianali nel nostro Paese, il nostro uno dei pochissimi del Centrosud.

In questi anni gli sforzi sostenuti da noi pionieri della birra artigianale per diffondere una nuova cultura birraia sono stati immani. L’obiettivo di tutti noi è stato quello, e lo è tutt’ora, di staccarci da quello che è il prodotto industriale, non per critica bensì per sottolineare le differenze, per identificarci in qualcosa di più ricercato, più sano, più naturale, più gratificante per il pubblico, ottenuto con metodologie di lavoro più complesse. La dizione “birra artigianale” in etichetta, in fondo, affermava questo concetto. A un esame più razionale dell’accaduto abbiamo però capito di essere in torto. Non esiste una categoria merceologica che definisca la birra artigianale perché mai si è riusciti a trovare una definizione che la qualifichi univocamente.

Qui dobbiamo professare un mea culpa perché tra i produttori di birra artigianale non si è mai raggiunto un accordo, non si è mai definito un disciplinare da portare al legislatore per modificare la normativa. La rabbia nasce dal fatto che manchi un fronte compatto tra i produttori in tal senso, probabilmente ad alcune persone non interessa − o non conviene − che vengano definiti precisi criteri produttivi. Mi rendo d’altronde conto che accordarsi su una definizione univoca sia tutt’altro che semplice. Non possiamo pensare di definire la birra artigianale partendo dai quantitativi prodotti: ci sono birre straniere che pur prodotte da birrifici industriali non sono sottoposte a filtrazione e a trattamento termico.

Vedo piuttosto come paletti fondamentali: la qualità, la selezione delle materie prime, la non pastorizzazione e microfiltrazione. Canoni questi che permettono di produrre un prodotto vivo, profumato, con connotazioni organolettiche uniche. La biodiversità è ciò che più connota la birra artigianale italiana, un prodotto inimitabile che il mondo c’invidia, anche quei Paesi a spiccata tradizione birraria! È l’utilizzo d’ingredienti legati al nostro territorio − mosto di vino, castagne, cereali particolari… − che dà eleganza alla nostra birra, è quest’espressione di creatività tutta italiana che colpisce all’estero. La birra artigianale italiana, come espressione ancora una volta del made in Italy, deve essere quindi sostenuta e protetta, serve una definizione univoca del prodotto, che permetta di sviluppare una legislazione più flessibile che comporti, per chi produce birra artigianale di qualità, minori oneri fiscali. Solo così questa bella avventura tutta italiana, iniziata non più di vent’anni fa, potrà crescere e dare nuovi e sorprendenti frutti!

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Questo sicuramente non inficia sulle caratteristiche finali del prodotto! È vero, d’altronde che, per chi produce birra, come d’altro canto per il consumatore medio in Italia, parlare di birra artigianale significa pensare a una birra non pastorizzata innanzitutto. Ci sono poi molti spazi sui quali muoversi oltre al trattamento termico − ingredienti, additivi, filtrazioni… − quel che importa è definire una strada comune sulla quale costruire la propria identità. Dal canto suo, Unionbirrai ha creato “Birra artigianale italiana Unionbirrai” un marchio che identifica quella che per l’associazione è una birra artigianale.

Lo abbiamo veicolato con una bottiglia ad hoc per connotare ancora meglio questo prodotto e redatto un disciplinare al quale i soci, che intendono utilizzare questo marchio, devono attenersi. Per noi la birra artigianale è quella prodotta senza trattamenti termici di pastorizzazione, senza additivi conservanti e non microfiltrata. Dei 90 associati, ben un terzo utilizza questo brand con successo perché crede nell’importanza di trasmettere un’informazione importante al consumatore».

[box bg=”#cccccc” color=”#000000′ title=”Un’intesa difficile ma necessaria”]
Filippo Terzaghi, direttore di Assobirra

Sulle sanzioni imposte a chi inserisce la dicitura “Birra artigianale” in etichetta, la normativa è inequivocabile, dato che prevede solo 5 categorie commerciali di birra: birra analcolica, birra leggera, birra, birra speciale, birra doppio malto. Qualsiasi altro termine al di fuori di tali categorie, viene ritenuto fuorviante e ingannevole dalle autorità di controllo e quindi contestato e sanzionato, giacché si ritiene che possa ingenerare nel consumatore un’incertezza in merito ad un’eventuale nuova tipologia di birra senza che essa sia prevista dalla legge. Il controllore, nel contestare la dicitura “birra artigianale”, si chiede quali siano le caratteristiche distintive di questo prodotto.

Torniamo a un annoso problema del quale non si è mai venuti a capo, nonostante i molti tentativi per trovare un accordo di questi anni, che però non hanno mai raggiunto l’unanimità dei produttori. C’è chi ha proposto come “birra artigianale” quella prodotta senza l’impiego di additivi e conservanti: ma nessuna birra in Italia, industriale o artigianale, viene prodotta con l’aggiunta di coloranti o conservanti. Si è pensato alla birra ottenuta senza microfiltrazione, ma esistono oggi artigiani che fanno uso di tecniche di filtrazione, così come sono in commercio nel nostro Paese birre non filtrate prodotte da grandi aziende in Italia e all’estero.

È stata la volta poi del prodotto non pastorizzato, ma anche qui ci sono parecchie birre prodotte da aziende non artigiane, soprattutto in fusto, ma non soltanto, che non hanno subito trattamenti termici. Oppure di chi utilizza determinate materie prime: sarebbe, in questo caso, anche controproducente per l’Italia, perché ciò che caratterizza la birra artigianale italiana è di aver utilizzato ingredienti particolari, come erbe dei territori, castagne, cicoria, carciofo…

Quindi in Italia una legge sulla purezza alla tedesca non converrebbe! Se poi, infine, volessimo considerare solo birra artigianale quella rifermentata in bottiglia, penalizzeremmo quei molti artigiani che non fanno questo tipo di prodotto. L’unica possibilità potrebbe essere quella di porre un limite di capacità produttiva. Potremmo definire artigiano un produttore ancora al di sotto di determinati livelli di produzione, quindi dove l’input umano prevale su quello tecnologico…

Per cambiare la legge, serve, innanzitutto, una larga intesa tra i produttori per definire con precisione cosa intendere per birra artigianale, e valutare, eventualmente, la creazione di un disciplinare, o di un marchio collettivo; sottoporre, infine, al legislatore la proposta per modificare la legge in vigore. Il problema è che questa intesa non si è mai raggiunta, d’altronde non è mai stato redatto un disciplinare della birra artigianale neanche quando i microbirrifici in Italia non superavano il centinaio. Immaginiamo adesso che il numero è salito a circa 500 aziende!

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