Inchiesta

Birra artigianale in cerca di un’identità

Sempre più consumatori conoscono e apprezzano la birra artigianale italiana, ma una definizione univoca ancora non esiste e riportare la dicitura in etichetta è illecito

Anche se con notevole gradualità, la birra artigianale sta conquistando sempre più spazi sul mercato birrario. Sintomo, quest’ultimo, di un continuo e crescente interesse per un prodotto che soli vent’anni fa era praticamente sconosciuto ai più. Qualità, innovazione, creatività tutta italiana sono gli elementi vincenti che hanno permesso alla birra artigianale di decollare e di creare un circolo sempre più ampio di cultori, tanto che sugli scaffali di diverse catene distributive, da tempo, ha fatto capolino qualche marchio di birra artigianale.

Produzioni di assoluta particolarità e qualità, birre ottenute con ingredienti tipici italiani − dai mosti, alle castagne, ai frutti… − che riescono, anche per questo, a conquistare consumatori evoluti italiani ed esteri. Crescono i consumi, cresce l’offerta di prodotti in un paniere caleidoscopico di ricette sempre nuove e originali, e con essi anche il numero di microbirrifici artigianali. Dai dati di un recente studio condotto da Unionbirrai in collaborazione con Altis – Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, di prossima pubblicazione, i microbirrifici accertati in Italia sono circa 550 con una produzione media di 500 hl/anno, produzione in crescita rispetto ai 450hl registrati solo qualche anno fa.

In etichetta la dicitura è illecita

Sulla strada del successo, rimane però qualche ombra, qualche nodo da sciogliere per un fluido e positivo divenire. È lecito il termine “birra artigianale”? Apporlo in etichetta no, visto che diversi microbirrifici italiani si sono visti comminare sanzioni salate per aver riportato la dicitura sulle loro bottiglie. Sanzioni corrette alla luce della legge 1354 del 16 agosto 1962 che stabilisce i dettami della “Disciplina igienica della produzione e del commercio della birra”.

All’articolo 2 si fa, infatti, specifico riferimento alle possibili denominazioni da riportare sull’etichetta in base al titolo alcolometrico e ai gradi Plato, quindi: “birra analcolica” riservata al prodotto con grado Plato non inferiore a 3 e non superiore a 8 e con titolo alcolometrico volumico non superiore a 1,2%; “birra leggera” o “birra light” è riservata al prodotto con grado Plato non inferiore a 5 e non superiore a 10,5 e con titolo alcolometrico volumico superiore a 1,2% e non superiore a 3,5%; “birra speciale” se il grado Plato non è inferiore a 12,5; “birra doppio malto” se il grado Plato non è inferiore a 14,5. Di “birra artigianale” nella legge non se ne fa menzione, d’altronde l’impianto legislativo è vecchio di cinquant’anni e la birra artigianale in Italia ha mosso i suoi primi passi a partire dai primi anni ‘90!

Stride sicuramente il paradosso che un’azienda che vanta una qualifica artigianale non possa estendere ai suoi prodotti la dicitura. Tutto ciò è però spiegato dalla circolare 10 novembre 2003, n.168, sull’”Etichettatura, presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari”. Recita il testo al comma F: “La presenza di una struttura organizzativa tipicamente artigianale e/o familiare è caratterizzata dal basso numero di addetti e soprattutto dall’incidenza dell’apporto umano e personale nella produzione. Questo aspetto concerne, ovviamente e unicamente, le caratteristiche dell’azienda. Pertanto non può in alcun modo essere utilizzato per presentare i prodotti come superiori nella qualità. L’azienda artigianale non può cioè trasformare la sua qualifica giuridica in un elemento di qualità dei prodotti finiti”.
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