Inchiesta

Birra artigianale in cerca di un’identità

Simone Monetti, direttore di Unionbirrai

Un problema d’identità

«Quello della dicitura in etichetta “birra artigianale” è, se vogliamo, un “non problema”», spiega Simone Monetti direttore di Unionbirrai, l’associazione culturale che promuove lo sviluppo e il consumo della birra artigianale in Italia. «A monte, in effetti, c’è un problema ben più importante: definire realmente che cosa s’intende per birra artigianale. Una questione quindi d’identità. Chi nel mondo è riuscito a darsi un’identità lo ha fatto su presupposti molto più labili rispetto ai nostri». Un esempio, in questo senso, viene dagli Stati Uniti, dove l’associazione dei birrai ha determinato i parametri che indicano come “craft brewery” anche grandi realtà produttive.

La “Brewers Association” (www.brewersassociation.org) definisce 3 requisiti perché un birrificio sia artigianale: “small”, si parla di una produzione annua massima di 7.000.000 di ettolitri!; “indipendent”, la proprietà del birrificio può essere fino al massimo del 24% di un birrificio industriale; “traditional”, almeno il 50% della produzione deve utilizzare puro malto. «Il problema – aggiunge Monetti – nasce dal fatto che il processo produttivo utilizzato per ottenere una birra industriale o una artigianale è assai simile, i macchinari anche, al di là che per la produzione di una birra artigianale non si pastorizzi o non si utilizzino succedanei come riso e mais o additivi e conservanti!

Se in alcune produzioni artigianali alimentari l’apporto manuale dell’artigiano è fondamentale − l’impasto fatto a mano è differente rispetto a quello ottenuto con un’impastatrice − nella birra in realtà questo non succede, a meno che non si decida di definire artigianale il caricare manualmente i sacchi di malto o trasportarli in spalla anziché servirsi di un nastro trasportatore…

[box bg=”#cccccc” color=”#000000′ title=”Alcuni spunti di discussione per definire l’“artigianale””]
Teo Musso, Birrificio Baladin

L’attivissimo mondo dei “birrifici artigianali italiani” è di recente costituzione. I primi birrifici, tra cui Baladin, sono nati nel 1996 quando non è stato più necessario disporre di un ufficio all’interno del birrificio per ospitare i funzionari dell’ufficio tecnico di finanza per i controlli relativi al calcolo dell’accisa e di conseguenza di non dover coprire i costi del funzionario incaricato. Questo detto, il resto della burocrazia, per i pionieri della birra “artigianale” italiana, era equiparata a quella prodotta dall’industria con ovvie conseguenze e problematiche superate, francamente, più dalla passione e dalla voglia di riuscire che dalla possibilità di un immediato guadagno. Poco è cambiato da allora. Questo primo spunto parla chiaro ed evidenzia la lacuna legislativa che urge colmare quanto prima, ancor più in questi momenti di difficoltà economica.

I microbirrifici sono oggi in Italia oltre 500 e creano un indotto interessante in termini di occupazione e di ricchezza. Non vanno abbandonati e non si deve assolutamente impedirne la naturale crescita a causa di una non chiara o inadeguata legislazione su cosa sia la “birra artigianale”. Non è possibile apporre in etichetta la dicitura “birra artigianale” perché fuorviante nei confronti del consumatore. Ma non sarebbe forse meglio definire birra e birrifici artigianali?

Il pubblico ha sufficientemente chiaro che cosa significhi in termini di qualità il concetto di birra artigianale. Occorrerebbe oggi, più che mai, che anche il legislatore ne fosse cosciente. Come? Definendo dei parametri qualitativi da rispettare, imponendo la non pastorizzazione del prodotto che dovrà restare “vivo” a differenza di ciò che avviene per ragioni distributive, per l’industria. Occorrerebbe fissare parametri quantitativi per definire un birrificio artigianale, anche se questo è un punto critico da dibattere.Baladin proporrebbe alcuni spunti di discussione per definire l’“artigianale”.

Prima di tutto il numero di addetti impiegati che non dovrebbe superare le 15 unità (come da definizione legislativa di attività artigianale); almeno il 50% della produzione dovrebbe essere viva, non pastorizzata e non microfiltrata. Questo premetterebbe di espandere il mercato del prodotto in fusto più delicato da gestire e conservare. Alle classificazioni di birra imposte dal legislatore (analcolica, light, normale, speciale, doppio malto) si potrebbe aggiungere il suffisso artigianale (per esempio: birra artigianale normale). Si tratta di un punto di vista personale ma da qualche parte bisogna pur partire per tutelare con urgenza il nostro mondo. Una vera risposta/proposta dovrà però necessariamente arrivare dall’associazione di categoria.

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Continua …