ASSOBIBE: l’analcolico tra innovazione e nuovi obblighi legislativi

Il settore delle bevande analcoliche in Italia è composto da 87 aziende con 100 stabilimenti distribuiti in tutta la penisola, che producono e commercializzano bibite gassate, aperitivi analcolici, energy e sport drinks e tè pronto. I grandi gruppi nazionali e internazionali sono affiancati a livello regionale da piccoli produttori specializzati in particolare in alcune bibite tipiche della tradizione italiana, come chinotti, gazzose, bibite al caffè, alle quali si sono aggiunti nuovi prodotti di nicchia come le bibite bio e “vintage”.  Si tratta di un settore molto attivo nel trovare sempre nuove ricette e nel rispondere alle richieste di mercato, pur dovendo affrontare molte modifiche legislative che lo mettono talora a dura prova. In dialogo con Giangiacomo Pierini, presidente di ASSOBIBE (Associazione Italiana Industria Bevande Analcoliche)

Facciamo il punto del mercato italiano delle bibite analcoliche: come si sta muovendo negli ultimi anni?

Giangiacomo Pierini

«Il valore del mercato è di 4.9 miliardi di euro, pari allo 0,29% del PIL. È costituito da 84.000 occupati, tra diretti e indiretti. La tendenza negli ultimi anni rimane l’attenzione al wellness, agli stili di vita alla scoperta di nuovi gusti del beverage analcolico. Negli ultimi dieci anni si è registrato un calo costante dei consumi di bevande zuccherate (-27% nel decennio 2010-2020) in tutte le fasce d’età. Le imprese del settore hanno risposto a questa tendenza del mercato introducendo nuove formulazioni sempre più funzionali e a ridotto o nullo contenuto di zucchero (+74%). L’industria delle bevande analcoliche è altamente innovativa e in continua evoluzione e oggi il mercato offre una grande varietà di prodotti per esigenze e gusti diversi. Durante il periodo pandemico poi si è registrato un trend in crescita dei fenomeni soda e limonata, legati al momento dell’aperitivo in casa, proseguito poi anche al termine della pandemia, con la conseguente riapertura dei locali; ancora oggi la crescita di queste referenze si attesta, rispettivamente, intorno a un + 5,9% e +9,9% nel canale moderno (anno su anno – Aprile). Ginger beer e Ginger ale conservano, invece, un peso maggiore nel fuoricasa. Le toniche guidano la crescita delle bevande analcoliche, con i tassi di incremento più forti sia nel canale Horeca che nei supermercati. Su questo segmento si registra un incremento di interesse da parte dei consumatori per le toniche premium e per quelle prodotte da piccole aziende locali (+6,5pts a valore vs 2019, +1,6pts vs 2021), segno che i consumatori prediligono produzioni di qualità con aromi legati al territorio».

Quali sono i punti di forza del mercato italiano?

«I punti di forza sono sicuramente l’apprezzamento da parte degli italiani verso i nostri prodotti che sono considerati espressione della tradizione, come rivela una ricerca condotta nel mese di maggio da Euromedia Research per ASSOBIBE. Da essa emerge che per quasi 8 italiani su 10 le bevande analcoliche fanno parte della tradizione italiana e contribuiscono a portare il Made in Italy nel mondo. Nonostante il mercato italiano continui a far registrare i consumi pro capite più bassi in UE, la bibita analcolica rimane nelle corde degli italiani, soprattutto nei momenti di festa e socialità.

«L’economia circolare per noi rimane un principio fondamentale, attuabile con il ritorno in possesso delle bottiglie immesse in consumo per poterne riutilizzare materia prima riciclata anziché vergine»

Un altro grande punto di forza del nostro settore è la capacità di coniugare innovazione e tradizione: negli ultimi lustri abbiamo lavorato per innovare attraverso ricette che mantengano il gusto e le caratteristiche rinfrescanti dei prodotti tradizionali, ma “senza” (per esempio senza zucchero, senza caffeina o teina, ecc.) e con aggiunte di vitamine, sali minerali e ingredienti fortemente legati al territorio, capaci di suscitare ricordi di sapori antichi. Penso per esempio all’impiego di estratti naturali di rosmarino e di sambuco, infusi naturali di bacche di mirto selvatico, succo di fico d’India, agrumi calabresi e siciliani (cedri, mandarini, bergamotto, arance moro, tarocco o sanguinello), peperoncino calabrese, chinotti liguri, estratto di melangolo di Puglia, etc. Ingredienti che hanno dato origini a prodotti tipici della nostra tradizione alimentare, tra i quali aranciate, chinotti, cedrate, spume bionde e brune, bibite gassate al caffè, aperitivi analcolici, con crescente ricorso a ingredienti IGP, DOP e presidi Slow food. Diciamo che la nostra forza è la capacità di cogliere le esigenze del consumatore e soddisfarle con ricette sempre nuove, ma con una forte identità italiana».

E se dovessimo parlare dei punti di sofferenza del settore e delle sfide che deve affrontare?

«Tra i punti di maggiore sofferenza per il nostro settore sicuramente figura una fiscalità importante in vigore e in arrivo. Non aiuta l’aliquota Iva piena al 22%, quando la media europea è al 16%. Oltre a ciò, vi è la spada di Damocle di nuove imposte dal 1.1.2024 come la sugar tax e la plastic tax. Il nostro Paese ha bisogno di ridurre la pressione fiscale, non aumentarla. Le debolezze del mercato in questa fase rimangono anche legate alle impennate di costi di materie prime, trasporti ed energia. L’elevata inflazione e il ridotto potere di acquisto rischia di riflettersi sul mercato, visto che parliamo sempre di prodotti voluttuari. L’incognita sugar e plastic tax potrebbero entrare in vigore a gennaio 2024, drenando il 10% del fatturato del settore e compromettendo gli investimenti necessari per continuare a essere competitivi e a crescere.

Un’ulteriore sfida che il comparto si trova ad affrontare riguarda il Regolamento europeo sugli imballaggi e rifiuti da imballaggio. Essa presenta diversi punti critici che – se approvati – rischierebbero di danneggiare soprattutto le PMI italiane. In termini generali, la sfida rimane riuscire a coniugare sostenibilità ambientale, economica e sociale in un settore che è sempre stato storicamente attento alle tematiche ambientali, all’innovazione, all’impatto di imballaggi, emissioni inquinanti, consumi di acqua, salute ecc. La sfida è quindi continuare a performare e offrire soluzioni al consumatore che soddisfino le sue esigenze con sempre minor impatto ambientale e sulla salute».

Parliamo delle regolamentazioni sulla percentuale di rPET in bottiglia: come state affrontando questa richiesta legislativa? Il mercato riesce a trovare sempre l’rPET necessario?

«Le imprese si stanno preparando ai nuovi requisiti comunitari sulle bottiglie in plastica, alcuni sono già sul mercato altri in fase di test. La disponibilità del PET riciclato per chi ha un obbligo di impiego rimane un elemento di preoccupazione, tenuto conto del massiccio impiego anche in filiere non alimentari, come ad esempio quelle del tessile, arredo, pneumatici, ecc. Per il raggiungimento degli obiettivi di impiego di plastica riciclata nelle bottiglie in plastica è indispensabile facilitare l’approvvigionamento di PET riciclato derivante dalla raccolta e riciclo delle bottiglie che i produttori immettono in consumo e garantire detta agevolazione proprio per consentire ai produttori di bevande la disponibilità di riciclato “food grade” di alta qualità e per evitare che lo stesso venga disperso in altri utilizzi. In UE il 68% delle bottiglie per bevande in PET viene riciclato e impiegato in altri settori – come quello delle automobili, del tessile e dei giocattoli – dove non può essere recuperato e riciclato in nuove bottiglie».

Per quanto riguarda invece le chiusure che dal 2024 dovranno obbligatoriamente esser legate alla bottiglia come si sta organizzando il mercato?

«Il settore sta investendo – e non senza difficoltà – per prepararsi all’introduzione dei nuovi tappi dal prossimo 1° gennaio. Si tratta di adeguamenti per i quali devono essere cambiati alcuni aspetti di produzione che devono comunque garantire la sicurezza per il consumatore. Purtroppo è un’evoluzione imposta per legge che aumenta l’impiego di plastica quando da anni le imprese lavorano per ridurla. Tutto ciò naturalmente comporta investimenti aggiuntivi, una risposta non entusiasta da parte dei consumatori per una soluzione che non modificherà l’inciviltà di chi disperde nell’ambiente imballi o parte di questi».