Teo Musso sarà ospite al convegno “Nuove competenze e nuovi modelli di business per la birra italiana” il 19 ottobre presso la sede di Tecniche Nuove. Lo abbiamo intervistato per anticipare alcuni dei temi di cui ci parlerà dal vivo. Iscrizioni a questo link
I sì e i no, gli obiettivi raggiunti e quelli ancora da mettere a segno, l’italianità del prodotto, il cammino verso la sostenibilità e i rapporti col mondo dell’industria: dov’è oggi la birra artigianale italiana secondo Teo Musso, a un quarto di secolo dai primi passi mossi dal movimento di cui Teo è “padre” e che ha portato alla nascita di oltre 1000 birrifici artigianali in Italia, tra cui il suo birrificio Baladin.
La rivoluzione e il riscatto
«Venticinque anni nei quali abbiamo assistito a una vera e propria rivoluzione culturale, che ha permesso di assegnare un’identità italiana alla birra», afferma Teo, specificando poi che in Italia il mondo della birra, in realtà, di rivoluzioni ne ha vissute due. «La prima, risalente a fine Ottocento – inizi Novecento, è stata per la precisione una colonizzazione dell’Italia da parte della Germania, in termini di filosofia produttiva e materie prime impiegate. Negli anni Novanta del secolo scorso, invece, è iniziato un cambiamento radicale, che ha profondamente modificato il percepito del prodotto nella mente e nel gusto di gran parte dei consumatori. La birra era pian piano divenuta una bibita – con tutto il rispetto per la categoria di prodotto – da consumare in grandi quantità e in alternativa ad altre bevande gassate. Cominciammo, io per primo, a ragionare e a produrre in modo completamente diverso, a dialogare con un certo tipo di ristorazione e a confezionare la birra nella bottiglia da 0,75 cc, in larga misura ispirandoci all’universo enoico».
Per circa un decennio i birrifici artigianali italiani, ancora pochi, seguirono questo trend. «Poi – spiega Teo – giunse l’onda lunga della rivoluzione culturale americana, dove a prevalere sul concetto di territorio erano i temi dell’indipendenza e dell’originalità. Valori importantissimi, ma che nel nostro contesto, così diverso da quello USA, ha finito per portare a estremismi poco in linea con la nostra cultura del gusto».
Il bivio
In quel periodo nel consumatore prese corpo l’idea che le birre artigianali fossero solo le super-luppolate e le non filtrate. «Il fallimento del progetto di rivoluzione, lo dico con dispiacere. Una situazione che nel tempo ha messo l’industria nelle condizioni di appropriarsi di questo percepito e occupare larghe fette di mercato», afferma Teo.
Il movimento della birra artigianale italiana si trovò a un bivio. La maggior parte dei birrifici seguì il modello americano, mentre un gruppo meno numeroso, capitanato da Baladin, dal 2006 decise di scommettere sul concetto di filiera brassicola completamente italiana. «Dire che la birra era “italiana” solo perché era stata aromatizzata col limone di Sorrento o il cedro calabro non bastava più. Volevo assolutamente affermare il concetto secondo cui la birra è un prodotto della terra».
Così nel 2008 Baladin dà vita al primo campo sperimentale di luppolo in Italia e nel 2011 immette sul mercato la Nazionale, prima birra 100% italiana prodotta nel nostro Paese. «Un progetto molto criticato, quando non deriso, da tanti miei colleghi birrai – dice senza mezzi termini Teo -. Per come la pensavo e la penso io, non ci si può qualificare come birrificio “del territorio” e poi non utilizzare materie prime italiane. Quando nel 2019 sono stato uno dei promotori e fondatori del Consorzio Birra Italiana ed è nato il marchio “Birra artigianale da filiera agricola italiana”, l’obiettivo era proprio quello di dare a tutti i birrifici la possibilità di accedere a materie prime di base di origine nazionale allo stesso prezzo a cui si trovano all’estero, dando così credibilità a quel concetto di appartenenza al territorio su cui si basa il 90% del marketing dei birrifici artigianali».