Sei vini per sorprendere ed emozionare

Che cosa le lasciò la Francia?

Lì non acquisii nuove conoscenze che potessero arricchire ulteriormente il mio bagaglio di competenze enologiche, scoprii però un mondo fantastico che coincideva con l’idea di vino che avevo sempre avuto. Coltivai questa nuova visione e la cominciai a vivere con grande entusiasmo. Al rientro in Italia, nel luglio del 1994, la voglia di fare era irrefrenabile e con il trascorrere del tempo sentivo sempre più forte il bisogno, intimo e interiore, di un mio spazio dove esprimere in piena libertà la mia creatività, le mie idee e il mio amore per il vino.

Al rientro in Italia s’intensificò anche l’attività di consulenza per diverse aziende vitivinicole.

La mia fortuna – o sfortuna – fu quella di essere un ricercatore e docente anomalo. Ero nato in cantina e conoscevo in modo approfondito tutti gli aspetti pratici legati all’enologia. Ero  un docente più alla francese: i docenti di Bordeaux sono tutti proprietari di cantine o consulenti di aziende vitivinicole. Questo i miei amici e colleghi della Scuola enologica lo sapevano bene, ricordavano dai banchi di scuola la mia grande dedizione. Così da proprietari di aziende vitivinicole cominciarono a chiamarmi per chiedere assistenza: era il periodo in cui la figura del consulente, del winemaker si stava parecchio affermando. Cominciai quindi a lavorare pure la notte, di giorno docente, poi, da tarda sera, consigliere dei miei amici… Una cosa che feci fu di tutelare la mia carriera universitaria, alla quale tenevo moltissimo, rifiutai perciò quelle proposte che venivano da aziende impostate su strategie industriali. Ho seguito piuttosto aziende che, in qualche modo, per filosofia produttiva, si avvicinavano alla mia idea di azienda ideale. Davo tanti consigli, ma ricevevo nello stesso tempo come docente perché in queste aziende si poteva fare della ricerca applicata e molti miei studenti finirono con compiere stage in queste aziende.

Parlava di un mondo enoico fantastico…

Quel mondo del vino che avevo sempre sognato, quello letto sui libri e che esiste! Non esisteva in Italia… Almeno fino ai primi anni ’90. In Francia, però, era quanto mai prospero e si fondava, piuttosto che sulla cantina e le pratiche enologiche, sulla viticoltura di qualità. In Italia si dava più attenzione alla trasformazione, non considerando nel modo più assoluto quello che chiamiamo il “potenziale enologico”, cioè l’uva: l’uva arrivava in cantina e su di essa veniva applicato un “protocollo produttivo”. Il vino lo si faceva, bene o male, sempre allo stesso modo: tecnologie a freddo, chiarifiche esasperate in pre-fermentazione…, la qualità la si considerava solo all’assaggio; l’enologo era colui che curava il vino, lo “sistemava” ma non lo progettava! Senza la qualità i francesi l’uva non l’avrebbero nemmeno portata in cantina, noi sì! Ma questo non è stato nemmeno tutta colpa nostra: viviamo in una terra generosa, straordinariamente varia per le sue condizioni pedoclimatiche  è stata lei che spesso si è occupata della qualità dell’uva… Oggi c’è maggior consapevolezza in tal senso c’è maggiore progettualità in un vino, c’è maggior attenzione alla cura della vigna e dell’uva. Si è capito che non è possibile produrre un vino se non lo si ha in testa; questo io lo dico ai miei studenti alla prima lezione del corso di enologia!

Parlava di protocolli produttivi…

Penso di essere stato il primo a coniare il termine di “enologia varietale”. Bisognerebbe un giorno scrivere il libro perfetto dell’enologia, quello che prevede una parte di enologia generale e poi… i vari capitoli di “Aglianicologia”, “Merlottologia”, “Chardonneologia”, “Sangiovesologia”… Siccome ogni mosto ha una composizione chimica e biochimica precisa e diversa per varietà di vitigno, proprio su questa composizione va plasmato il processo di vinificazione in funzione dell’obiettivo finale. Parecchio si è fatto in tal senso, i molti studi condotti sui vitigni cosiddetti “internazionali” hanno dato corpo a una letteratura scientifica interessante. Sfogliando un trattato francese di enologia troviamo molte informazioni sullo Chardonnay, sul Cabernet sauvignon o il Merlot… Poco o nulla, invece, si sa sulle varietà meno blasonate che aspettano solo di esprimere al massimo il loro potenziale enologico. Mi riferisco, per esempio, ai molti vitigni autoctoni nostrani.

A Quintodecimo si fanno sei vini, 3 rossi e 3 bianchi, senza la velleità di proporne di nuovi, ma con l’intento preciso a ogni annata di creare quel vino equilibrato, straordinariamente intenso perché pregno di quel terroir da cui nasce l’uva che l’ha generato
A Quintodecimo si fanno sei vini, 3 rossi e 3 bianchi, senza la velleità di proporne di nuovi, ma con l’intento preciso a ogni annata di creare quel vino equilibrato, straordinariamente intenso perché pregno di quel terroir da cui nasce l’uva che l’ha generato

Perché si è puntato sul vitigno “internazionale”?

Perché è un vitigno interessante, e questo significa che ha un’identità sensoriale, dei profumi gradevoli con una persistenza aromatica; tutti caratteri che piacciono al consumatore. Queste caratteristiche dovrebbero essere i criteri per la selezione di quei vitigni autoctoni da studiare. Ne abbiamo d’interessantissimi dei quali si sa poco, penso al Sangiovese, al Nebbiolo, all’Aglianico, al Nero d’Avola, al Montepulciano, al Primitivo, al Nerello Mascalese… Penso al Vermentino, al Verdicchio, al Trebbiano, alla Falanghina, al Fiano al Greco, al Carricante… Questi vitigni si sono adattati a una variabilità pedoclimatica straordinaria e assolutamente tipica del nostro Paese. Questa la nostra forza, è questo il motivo per cui l’Italia è il Paese del vino!

In tema di studi varietali, Quintodecimo è un laboratorio a cielo aperto…

C’è un progetto di zonazione su scala aziendale (ZOVISA) con pedologi e fisiologi della vite, che stiamo portando avanti ormai da 5-6 anni, perché pochissimi sono i lavori scientifici – eccetto qualcuno sul Sauvignon Blanc – dove viene dimostrato come i cambiamenti a livello di chimica del suolo possano influenzare l’accumulo di metaboliti sensorialmente attivi nell’uva e quindi nel vino.

Torniamo a Quintodecimo, nella sua cantina…

La cantina di Quintodecimo è “dentro” la vigna, un aspetto molto importante perché annulla il tempo di latenza tra raccolta e ammostatura: l’uva viene ammostata al massimo della freschezza, senza alcuna possibilità di alterazione. Trenta gradini sotto la casa e si entra in cantina, il luogo oscuro per eccellenza, semplice, ma razionale che incoraggia l’uomo alla pazienza… La cantina non ha “effetti speciali”, questo non vuol dire che sono avverso alle tecnologie. Il vino va fatto con la testa però! L’investimento più importante è stato fatto sull’ammostatura: tutti i serbatoi sono termocondizionati; per la realizzazione dell’impianto abbiamo scelto un’azienda del luogo, la Italimpianti srl. Di quest’azienda sono pure i serbatoi nei quali effettuiamo la vinificazione: in acciaio, una trentina, condizionati e refrigerati; la regolazione della temperatura è tutta informatizzata e gestita da PC. A monte ci sono due tavoli di selezione in acciaio, il primo scorrevole, il secondo vibrante. C’è quindi una diraspatrice con aspo in gomma per evitare lacerazioni dei raspi; utilizziamo delle pompe peristaltiche della CMA, per il trasferimento dei liquidi, dei semi-liquidi e per la svinatura. La pressa è pneumatica dell’azienda DIEMME. Le stazioni di filtrazione sono della SEITZ. L’impianto d’imbottigliamento è un monoblocco della GAI da 1000 bottiglie/ora, perfettamente dimensionato, visto che imbottigliamo in due diversi momenti dell’anno le produzioni: i bianchi in giugno, i rossi a febbraio-marzo. L’etichettatrice e la capsulatrice sono, infine, di Enos.

Un salto nel futuro?

L’obiettivo sarà sempre più da un lato di trasmettere al consumatore l’amore che dedichiamo alle nostre produzioni, le quali dovranno essere sempre serie e rigorose per permettere di mantenere l’eccellenza raggiunta. Dall’altra sarà la preservazione di quel patrimonio inestimabile che oggi fa di Quintodecimo una piccola ma bella realtà vitivinicola italiana: le sue vigne… Curarle, sistemarle, difenderle, mantenerle in perfetta salute, farle invecchiare nel migliore dei modi ci consentirà di costruire un potenziale enologico sempre più importante. Questo, di fatto, è ciò che dà l’unicità al vino.