Quando una Dop crea il caos

Un caso emblematico, quello dell’aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia ma certamente non unico: da quando ha ottenuto la Dop perde mercato, le aziende chiudono per la crisi e le vendite calano. Un mix esplosivo che propone una riflessione: a cosa serve la tutela se non protegge le produzioni tipiche e i piccoli produttori? Colpa di una burocrazia troppo intrecciata da sbrogliare o dei grandi interessi?

Un giro d’affari di 20 milioni di euro l’anno, con un potenziale produttivo di 60mila ampolle da 100ml ma che si ferma 22mila e che quest’anno cala ulteriormente considerando la chiusura di una storica acetaia, la Dodi. Stiamo parlando dell’aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia, un prodotto che nel 2000 ha ottenuto la Dop e che da allora, per assurdo, non dorme più sonni tranquilli. L’aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia, infatti, nelle botti di legno, dentro le acetaie, deve riposare 12 anni, un lungo invecchiamento previsto dal disciplinare approvato in sede europea. Ma, terminato il suo lungo riposo, l’aceto tradizionale non trova più mercato. Ma andiamo in ordine e partiamo dal principio.

La produzione

All’origine di tutto c’è l’uva da cui si ottiene il mosto che viene assoggettato a cottura facendolo sobbollire per circa 12/13 ore. È una procedura che serve per ottenere una concentrazione degli zuccheri attraverso la riduzione del volume iniziale di circa il 50%. Con i primi caldi primaverili il prodotto così ottenuto inizia il processo di fermentazione che trasforma gli zuccheri in alcol. Quando la gradazione alcolica raggiunge i 7/8° si aggiungono colonie di acetobatteri, chiamate “madre”, che interrompono il processo di fermentazione e favoriscono l’inizio dell’ossidazione acetica che durante gli anni di affinamento trasformerà l’alcol in acido acetico. Raggiunta l’acidità di circa 3 gradi vengono riempite una serie di botticelle (in genere 5) di essenze legnose e capacità diverse denominate “batterie” e una botte con capienza da 150 a 220 litri denominata “badessa”.

I contenitori vengono poi posizionati nei sottotetti, dove il prodotto viene affinato per non meno di 12 anni. Questo in sintesi il metodo di produzione dell’aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia che, nonostante le tante problematiche e la brutta aria che tira per l’economia del Bel Paese, resiste alle insidie della globalizzazione e a quelle della burocrazia. La qualità dell’aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia è sancita da un disciplinare di produzione in vigore da quando questo prodotto è tutelato, dalla comunità europea con il riconoscimento Dop. Ma il valore di tale riconoscimento è sminuito da una normativa poco chiara, in particolare riguardante l’uso del termine “balsamico”.

Le criticità sono tante: «Ci sono situazioni di contrasto – ci spiegano dal Consorzio di tutela che ha sede a Reggio Emilia presso la Camera di Commercio – con produttori che, per sfruttare la reputazione dei tradizionali, usano il termine “balsamico” per prodotti alternativi molto meno costosi, ottenuti in pochissimo tempo mescolando ingredienti diversi di cui spesso è ignota l’origine. C’è la mancanza di capacità della stragrande maggioranza dei consumatori nell’acquistare consapevolmente il prodotto. E le diatribe burocratiche di strutture istituzionali che non riescono a dare chiare soluzioni per sbrogliare queste controversie, arrecano grande danno alle aziende soprattutto quelle piccole. Infine, la crisi. Oggi non aiuta. In termini commerciali si è perso mercato, si producono meno bottigliette di aceto». Infatti, nel 2013 a fare segnare con un meno la produzione di aceto balsamico tradizionale reggiano, ci si è messa anche la storica acetaia della famiglia Dodi di Casalgrande, finita in vendita e acquistata da un gruppo reggiano.

Tanti aspetti disagevoli favoriscono situazioni di discordia anche tra i piccoli produttori e «Il rischio che si corre è di perdere la tradizione e la produzione di un grande prodotto che potrebbe esaurirsi dietro alle conseguenze di quella che generalizzando definiamo la globalizzazione e il consumismo – spiega Carlo Ferretti, presidente del consorzio di tutela aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia. – In pochi casi come per l’aceto balsamico tradizionale, la sua storia “è il prodotto”» ci dice all’inizio di quest’intervista e poi prosegue raccontandoci la storia, affascinante, delle sue antiche origini in gran parte sconosciute.

Carlo Ferretti, presidente del consorzio di tutela aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia

Un prodotto che ha varcato la storia

Se ne trovano tracce nell’anno 1046, quando l’imperatore di Germania Enrico III, in viaggio verso Roma per l’incoronazione, fece tappa a Piacenza. Da qui rivolse a Bonifacio, marchese di Toscana nonché padre della famosa contessa Matilde di Canossa, la richiesta di omaggiargli uno speciale aceto che “aveva udito farsi colà perfettissimo”. Proprio all’interno delle mura del castello che diverrà famoso qualche anno più tardi per l’incontro “del perdono” tra papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV, si narra venisse prodotto un aceto, elisir e balsamo. Per tutto il Rinascimento l’aceto balsamico è presente nelle tavole dei nobili ma fu nel 1476 con Alfonso I, duca di Ferrara, che ebbe un grande slancio grazie alla dinastia che governò il ducato di Modena, Reggio e Massa fino al 1859, investendo sull’aceto balsamico tradizionale. È stato utilizzato attraverso i secoli sino ai giorni nostri, dove «Ahimé, iniziano i problemi seri».

A quali problemi si riferisce presidente?

Problemi di diverso genere: per assurdo sino a quando si produceva l’aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia con un disciplinare che tutelava il prodotto e i consumatori, si riusciva a lavorare bene. I problemi nascono quando arriva la Dop, a causa degli onerosi gravami burocratici a cui sono stati assoggettati i produttori. Rispettando le normative produttive e controlli più restrittivi, si auspicava un valore aggiunto che non si è mai palesato perché nessuno ha spiegato ai consumatori le garanzie che offre il prodotto riconosciuto Dop.

Una contraddizione in un certo senso se c’è una tutela…

Proprio questo particolare mette in crisi la Dop. Se poi si aggiunge che la legge ha consentito a due giudici di sentenziare che il termine balsamico è generico, come si dice dalle nostre parti, si completa la giostra!

Ma quei giudici avevano degustato l’aceto?

È una domanda a cui non so rispondere, ma purtroppo la gradevole sensazione che si percepisce assaggiando un buon prodotto non può essere sufficiente a modificare l’interpretazione della legge.

Quali sono le uve usate per fare l’aceto balsamico tradizionale di Reggio Emila?

Le uve per i mosti destinati a divenire aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia sono il Trebbiano, l’Occhio di Gatto, la Spergola, il Berzemino e tutti i diversi vitigni inseriti nel disciplinare del Lambrusco Reggiano doc, ossia il Marani, il Salamino, il Maestri, il Montericco, il Sorbara e l’Ancellotta.

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