Birra? Sessant’anni della mia vita

Cortesia Theresianer, Nervesa della Battaglia (Treviso)

Attimi condensati di una vita. Arriva, però, il momento del pensionamento…

Appena maturata la pensione, Bill mi suggerì di approfittarne, ma volle che il nostro rapporto professionale non s’interrompesse, per alcuni anni mi affidò un incarico di consulenza.

 

Questo fu l’inizio di una “seconda giovinezza” professionale!

Se vuol metterla così …sono rimasto in effetti in contatto con il settore birrario, alternando soddisfazioni e delusioni. Docente per Assobirra; responsabile della costruzione e dell’avviamento di una fabbrica da 100.000 hL annui in Albania; site manager per conto della Huppmann durante la costruzione degl’impianti Peroni di produzione mosto a Roma e a Bari; conferenze e consulenze per alcune birrerie…..insomma la birra come hobby! Last but not least c’è stata la redazione, beninteso a titolo onorario, della rivista dell’Associazione italiana dei tecnici birrari, che ho seguito in prima persona per decenni, fino a passare il testimone due anni fa all’amico Gennaro Maturano, ed ora slowBrewing − associazione senza scopo di lucro che si prefigge di valorizzare le birre di eccellenza.

Una vita passata nel comparto della birra, che cosa è cambiato in tanti anni?

Se penso alle fabbriche quando ho incominciato a studiare tecnologia birraria! L’evoluzione è stata straordinaria, impressionante se quelle fabbriche le paragoniamo con le moderne industrie dei giorni nostri. L’acciaio inossidabile ha sostituito tutti gli altri materiali; le valvole d’intercettazione sono tutte (o quasi) pneumatiche e di tipo sanitario; ci sono gli impianti CIP per la pulizia e la disinfezione degli impianti, migliorandone l’efficacia e alleviando la fatica degli addetti; le linee di confezionamento, che negli anni Cinquanta arrivavano ad un massimo di 10.000, raramente 15.000 bottiglie, oggi raggiungono cadenze orarie di 100.000, con doppia preevacuazione.

E i barili destinati alla spillatura? Per vederne uno si deve andare all’Oktoberfest, dove è sempre il Sindaco di Monaco di Baviera a piantare, con un gran colpo di martello, il rubinetto di erogazione “a maschio” (in bronzo) nell’apposito foro ricavato in una doga del barile in legno, e se il colpo non è ben assestato la doccia a suon di birra è assicurata!

Oggi i barili si chiamano keg (acronimo di krupp edelstahl gebinde ovvero imballaggio inox Krupp) e per collegarli con il rubinetto di erogazione basta girare di 90 gradi la testata… e i macchinari di confezionamento, anche di costruttori Italiani, viaggiano a portate di 300 e più ettolitri ora! Potrei continuare ancora a lungo l’elenco, che del resto ho già fatto sul numero del trentennale (dicembre 2008) di questa rivista, ma… gli aspetti che, forse, più di ogni altro hanno contribuito a differenziare il mondo della birra di oggi da quello di ieri sono stati lo sviluppo dell’industria birraria cinese e la concentrazione.

Quando, finalmente, le assurde ideologie maoiste furono sostituite dal pragmatismo di Deng Xiaoping, la produzione della birra in Cina è letteralmente esplosa passando da meno di 2 milioni di ettolitri annui nel 1979 a circa 20, sei anni più tardi. Oggi con poco meno di 500 milioni di ettolitri annui, la Cina è il primo produttore di birra al mondo, superando, di gran lunga, i 225 milioni di ettolitri degli Stati Uniti. Di pari passo si sono sviluppate anche le attività e le industrie ausiliarie, dalla coltivazione del luppolo alla costruzione dei macchinari, con grande beneficio del PIL!

La concentrazione…

Qui bastano poche cifre: prima che iniziasse la concentrazione, la statunitense Anheuser- Busch, allora il gruppo più grande, produceva circa il 2% della produzione mondiale che era di un milione di ettolitri. Oggi la AB-Inbev, nata dalle successive fusioni di Anheuser-Busch con i brasiliani della Brahma , con i belgi della Interbrew-Stella Artois, e altri, come si legge nella tabella 1 controlla approssimativamente il 20% della produzione mondiale, la quale frattanto ha quasi raggiunto i due milioni di ettolitri.

Così circa il 50% della birra è in mano a pochi grandi gruppi, con piena soddisfazione dei fondi pensione e assicurativi, che investono volentieri nel settore birra. Io però mi trovavo più a mio agio quando lo scopo principale dei birrifici era la produzione di birra… e il reddito dei proprietari, per così dire, un corollario. Parallelamente alla concentrazione si è assistito, grazie all’automazione, anche ad un fenomenale aumento della produttività. Ai tempi del mio primo impiego in Pedavena mille ettolitri per dipendente dei reparti produttivi all’anno era già una prestazione accettabile: oggi si parla 15.000 ettolitri.

Bassa, ma socialmente utile, resta, invece, la produttività nelle “micro birrerie”, che io preferisco definire così, essendo il confine fra artigianale e industriale piuttosto difficile da definire. Ma, in questo caso, va considerato che, come ben disse l’allora presidente di Assobirra, l’ingegner Piero Perron: «Tutti i grandi marchi di birra moderni sono “nati micro” e sono poi cresciuti a forza di produrre birra di qualità superiore!».

Nelle microbirrerie i macchinari sono spesso gli stessi, l’automazione trova applicazione indipendentemente dalla grandezza del birrificio e solo ben poche tecniche sono rimaste davvero “artigianali”, come per esempio la rivoltatura manuale dell’orzo nelle malterie “ad aie”, o la rifermentazione in barrique, tecniche però relativamente poco diffuse. Forse l’unico criterio è piuttosto l’impegno personale, la passione del “capo”, a livello micro più legato alla propria azienda.

A proposito di microbirrerie: che cosa ne pensa di questo fenomeno, letteralmente esploso in pochi anni in Italia?

Le microbirrerie, con la loro straordinaria inventiva, hanno assai efficacemente contribuito a elevare l’immagine della birra e a ravvivare l’interesse dei consumatori. Un fenomeno vivace anche in Italia che vede oltre 400 microbirrifici in attività e parecchi altri in progettazione. Per fortuna oggi abbiamo, presso l’Università di Perugia, il CERB (Centro Eccellenza Ricerche Birra): esso può efficacemente assistere le piccole fabbriche di birra, che ovviamente non possono permettersi un attrezzato laboratorio controllo qualità.

Tornando all’evoluzione tecnologica, quali sono stati i passaggi chiave dell’innovazione?

A Weihenstephan il Prof. Narziss ha completamente rivoluzionata la tecnologia della maltazione dell’orzo. Poi vi è stata l’adozione del sistema high gravity, ad alta densità, un’idea canadese accettata dalla legislazione italiana all’inizio degli anni Ottanta, proprio poco dopo l’acquisizione della Moretti da parte della Labatt; una tecnologia che consiste nel produrre, in sala cotte, un mosto più concentrato della birra da confezionare e commercializzare.

Il mosto concentrato viene fermentato e, solo immediatamente prima del confezionamento, la birra concentrata è portata alla concentrazione voluta, miscelandola con acqua sterile (dalla quale è stata preventivamente rimossa ogni anche minima traccia di ossigeno disciolto). Si ottengono notevoli risparmi di energia termica e aumenti di capacità produttiva, e si contribuisce anche all’uniformità della birra. Finora però nessun costruttore d’impianti è riuscito a produrre macchinari per il trattamento dell’acqua high gravity di dimensioni adatte per i microbirrifici, e probabilmente è meglio così.

Vorrei poi ricordare i sensazionali progressi nel campo del controllo qualità, per esempio il perfezionamento delle tecniche di assaggio, o l’utilizzo della gascromatografia. Ancora, l’apparecchio dell’austriaco Anton Paar, che permette di determinare con la massima precisione il contenuto alcolico, l’estratto residuo, e il grado di fabbricazione di una birra, e tutto ciò in pochi minuti, mentre fino a quarant’anni fa, con il metodo della distillazione o anche con quello del rifrattometro, ci volevano ore, e la precisione era inferiore!

E, a vantaggio della qualità del prodotto finito, sono andati anche i sempre più sensibili terreni culturali microbiologici introdotti, per esempio, dal Prof. Back a Weihenstephan a partire dal 1980. E anche qui potrei continuare ancora per molto…

Guardando, invece, al futuro: quali saranno le prossime sfide?

Limitandomi all’Italia, e partendo da ciò che già è stato raggiunto si dovrà, innanzitutto, continuare a mantenere alta l’immagine della birra e a coniugare tradizione con innovazione biotecnologica, ricercando sempre il corretto equilibrio. Assai meritoria è stata in questo campo l’azione di Assobirra, che dai tempi dello slogan “Birra, e sai cosa bevi”, tanto efficacemente pronunciato da Renzo Arbore, ha posto le basi per l’elevazione dello status sociale della birra.

Vorrei ricordare, in questo senso, anche, il lavoro svolto dall’Associazione italiana tecnici birrari, che con proficui scambi d’idee ed esperienze e piacevoli periodici incontri, ha agito anch’essa a favore del progresso del settore birra in Italia, dimostrando quanto la birra possa contribuire alla concordia e alla socializzazione. Per fortuna, oggi, come proprio recentemente ha scritto il ben noto giornalista birrario, oltre che esperto assaggiatore, Maurizio Maestrelli, l’antica rivalità fra birra e vino “non ha ragione di sussistere”, si tratta solo ”di un luogo tanto comune quanto senza senso”.

Eppure resta di certo ancora parecchia strada da fare. Per esempio cercare di convincere i governanti a ridurre il carico di adempimenti burocratici, del tutto sconosciuti in Paesi di tradizione birraria ben più lunga di quella italiana, che grava sulle birrerie italiane sia piccole sia grandi e di sicuro non va a vantaggio di nessuno. Poi dobbiamo poter garantire anche in futuro l’approvvigionamento di orzo di buona qualità: esso è messo in pericolo fra l’altro dalle incentivazioni della Comunità Economica Europea alle colture finalizzate alla produzione di energia.

Una sfida del futuro sarà anche l’educazione dei consumatori, volta sia a sensibilizzarli sull’importanza del consumo responsabile, sia ad aiutarli a meglio apprezzare tutte le qualità sensoriali delle birre migliori.