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Home Bevande Vino Due professioni, un unico stile
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Intervista all’enologo

Due professioni, un unico stile

redazione
29 Giugno 2013
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    Produttore e consulente allo stesso tempo, Beppe Caviola ha saputo far tesoro di un’esperienza a tutto campo per produrre vini di stile, capaci di esaltare al meglio territorialità e vitigno.

    E’ il 1991 quando escono le prime 860 bottiglie firmate Beppe Caviola; un Dolcetto che va a ruba nel men che non si dica, forse in maniera anche un po’ inaspettata… Inizia così l’avventura di Beppe Caviola nel mondo del vino, una vigna in affitto, un trattore in prestito, una certezza: l’incoraggiamento lusinghiero di Elio Altare − già tra i vigneron illustri nella galassia del Barolo − a imbottigliare quel Dolcetto. La storia sembra segnata, il destino tracciato, dopo le prime vendemmie, dopo gli innovativi affinamenti in barrique arrivano i primi riscontri, i riconoscimenti dalla critica. Caviola lascia il Centro per l’Enologia di Gallo, dove ha iniziato a lavorare successivamente al diploma alla Scuola Enologica di Alba, e per uno stipendio decente decide anche di coltivare una piccola attività di consulenza; corre la voce e quest’attività marginale si fa strada. Arriva una richiesta da Villa Sparina, azienda di Gavi, qualche anno dopo da Capichera in Sardegna, poi Umani Ronchi nelle Marche; il giro si amplia e Caviola si trova a vivere due professioni sinergiche, emozionanti e totalizzanti dove le esperienze dell’una nutrono l’altra. Caviola è oggi un’azienda affermata che produce 60 mila bottiglie l’anno, dove il Barolo Castello 2006 è l’ultimo nato, il fiore all’occhiello, il coronamento di un percorso, di una produzione d’eccellenza con un Dolcetto d’Alba Barturot, un Dolcetto d’Alba Villot, una Barbera d’Alba Bric du Luv, una Barbera d’Alba Brichet e un Langhe Nebbiolo. Beppe Caviola racconta il suo pensiero enoico, tecnologico e le sue scelte in cantina.

    Consulente enologico e vignaiolo allo stesso tempo…
    Nel ‘91, quando misi in bottiglia quel Dolcetto, penso non fosse nel mio intento diventare produttore, lavoravo al Centro per l’Enologia di Gallo, il lavoro mi piaceva e proprio per arricchirmi professionalmente, per approfondire le competenze sulla vigna e sull’uva, mi buttai in questo esperimento. Ero giovanissimo, poco più che ventenne, e nelle Langhe si respirava aria di rinnovamento, c’erano i barolisti conservatori arroccati sulla tradizione e quelli nuovo stile, innovatori. Il dibattito era acceso, costruttivo, aperto: barrique sì? Barrique no…?

    Lei da che parte stava?
    Frequentavo gli Altare, i Clerico, quelli del Gruppo Langa In per capirci, con loro seguii tutta la sperimentazione sull’impiego della barrique in affinamento abbinato a macerazioni più brevi. Quindi nasco più come innovatore che come conservatore anche se oggi avrei delle difficoltà a vestire gli stessi panni…

    Che cosa intende?
    Molto è cambiato da allora, con l’esperienza ho sviluppato una certa “maturità enologica” che mi ha fatto dismettere i panni dell’innovatore, e questo non per vestire quelli del tradizionalista; non seguo le mode, non mi arrocco su posizioni dogmatiche, fondo il mio modus operandi su quelle convinzioni che sono frutto dell’esperienza, la mia personale esperienza maturata in più di vent’anni di attività, molti dei quali per cantine di tutta Italia. Le mode… Ancora oggi è di rito la domanda: vino affinato in botte o in barrique? È curioso − e, per certi versi, spiacevole − constatare che chi difendeva la barrique in passato oggi è per la botte… Se l’essere moderno, se l’essere innovatore significa seguire le mode, significa snaturare il prodotto con eccessi, ad esempio di legno nuovo, e d’altronde l’essere tradizionalista significa coprire in qualche modo quelle che sono le caratteristiche vere, varietali del vitigno, lavorando con botti vecchie − forse sarebbe meglio definirle obsolete − allora dico che non sono d’accordo né con gli innovatori né con i tradizionalisti. Quello che cerco di fare, come produttore e come consulente, è di amplificare, esaltare le caratteristiche intrinseche di ciascun vitigno rispettando il più possibile l’origine, la territorialità l’appartenenza al territorio e ciò che ne deriva, quindi le tante sfumature, le sfaccettature.

    L’ultima moda?
    I vini naturali! Ben venga il biologico, ben venga il biodinamico a patto che l’aspetto sensoriale sia rispettato e rimanga l’obiettivo prioritario. Ma l’intransigenza, tipica di ogni moda, porta a scelte drastiche, a demonizzare, in questo caso, la tecnologia e l’innovazione frutto di una ricerca scientifica rigorosa. Nascono vini accomunati da volatili alte, note di acetati frutto di fermentazioni mal gestite. Ricordo quegli anni ancora da analista quando scendeva ad Alba, al mercato, anche il contadino, viticoltore fai da te; portava il suo vino e proponendomelo con una certa soddisfazione, anticipava l’assaggio con un “io non aggiungo nulla”! Le note organolettiche erano curiosamente vicine a quelle di molti vini naturali che ho l’occasione di assaggiare oggi, lì c’era l’ignoranza del contadino, intesa in senso buono, nel senso di non saper fare il vino…

    Le innovazioni tecnologiche in campo enologico sono state un’importante conquista…
    …che ha permesso di far crescere notevolmente la qualità dei vini italiani. Se sui vini di pregio i francesi, maestri insindacabili, ci danno ancora qualche punto, anche se il divario si è notevolmente ridotto, sui vini di fascia intermedia, con buon rapporto qualità prezzo, oso pensare anche a un sorpasso! Questo risultato si è ottenuto grazie ai tecnici…

    Quali sono state le conquiste tecnologiche più salienti?
    Partendo da qualcosa che, forse, diamo per scontato, il monitoraggio della temperatura,un parametro fondamentale per gestire la fermentazione sia dei vini bianchi sia di quelli rossi. Senza il controllo della temperatura non esisterebbero oggi i vini del Sud vent’anni fa genericamente classificati come vini da taglio, di mediocre qualità insomma. La filtrazione è una tecnologia che è cambiata. Oggi si utilizzano in cantina cartucce in polipropilene, con materiali che non impoveriscono il vino; sono finiti, per fortuna, i tempi degli strati filtranti a cartone, delle farine, della perlite… È d’altronde vero che è cambiata anche la percezione del vino. Ci ricordiamo il bianco carta?! Quel vino che subiva chiarifiche esagerate? Il bianco lo si voleva così, trasparente come l’acqua, senza quei riflessi oggi così ricercati… Si eliminavano tutte le fecce nobili già alla fine della fermentazione. Ancora parlando di tecnologia, troviamo vinificatori sempre più sofisticati che permettono l’estrazione rapida e calibrata delle componenti nobili del vino. Serve grande perizia nell’utilizzo − l’eccesso di estratto si traduce in qualcosa che toglie bevibilità, eleganza al vino − ma alleviano di molto i costi in cantina in termini di manodopera.

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