La narrazione del direttore commerciale Felice Esposito è talmente vivida e colorita che sembra quasi di poter salire a bordo della macchina del tempo e assistere in prima persona alla gestazione e alla nascita di Kbirr. È facile, infatti, immaginare come attraverso numerose prove e altrettanti assaggi, Esposito e gli intraprendenti sodali Fabio Ditto e Achille Certezza – come mastro birraio – siano giunti infine a ottenere il risultato e quindi la bevanda che effettivamente desideravano. E allora deve essere stato pressoché inevitabile prorompere in un’esclamazione che, dall’inglese, è stata rapidamente riadattata al contesto e perciò tradotta in lingua napoletana. “What a beer”. Ovvero: che birra! E cioè ancora: Kbirr, appunto. A distanza di diversi anni tale è ancora il fortunato brand che accompagna la diffusione e il successo di questa originale e sempre più vasta famiglia di bionde sia “rint’e’ vicule ‘e ‘sta città”, per citare Teresa De Sio, sia nel resto del Paese e a spasso per il mondo.
‘O birraio ‘nnammurato

«Il birrificio Kbirr – ci racconta Felice Esposito – è nato sulle radici di una precedente attività di distribuzione di celebri marchi tedeschi gestita dalla società che tuttora ne è la proprietaria, Drink-up Srl. Come consumatori, oltre che come professionisti, ci siamo resi conto di come nella nostra provincia si sentisse la mancanza di una birra artigianale di qualità in un momento in cui – circa una ventina d’anni fa – le produzioni indipendenti iniziavano ad affermarsi. Si avvertiva chiaramente un mutamento nella percezione e nelle abitudini dei consumatori: le etichette industriali, che un tempo erano veicolate come premium, stavano perdendo questo status».
L’impressione era che sussistessero spazi disponibili per presentarsi al mercato e competere. L’ostacolo da superare era quello di fronte al quale si sono trovati e si trovano tanti artigiani. «Per assicurare ai consumatori il valore aggiunto al quale ambivamo, dovevamo essere certi di poter garantire la massima continuità nella qualità. Il caso o il destino hanno favorito l’incontro con colui che è diventato il nostro mastro birraio: gestiva una piccola attività da 500 litri l’anno, ma aveva tutte le carte in regola per darci l’eccellenza che richiedevamo».
Il debutto è avvenuto con una Scotch Ale, cui hanno fatto seguito un’immancabile Lager e una Belgian Strong Ale. In principio, venivano realizzate in quantitativi giocoforza limitati e l’espansione della capacità produttiva è stato il passo in avanti successivo. Dal 2015 sono stati invece via via acquisiti due fermentatori, insieme a una linea di imbottigliamento e ad altre macchine di etichettatura e per l’infustamento. È datata al 2019 l’installazione di un nuovo impianto la cui capacità è pari a 6.500 litri per ciascuna cotta.
Un giapponese napoletano
Su una superficie complessiva di 340 m2 ai quali si sommano i 1000 circa occupati dai magazzini, Kbirr può oggi vantare un potenziale da 12.000 litri di birra al giorno e dal capoluogo campano ha esteso il suo raggio d’azione a tutta l’Italia e di fatto a tutti i cinque continenti.
«Napoli – sottolinea Esposito – non smette di esercitare un fascino enorme sul pubblico di ogni dove ed esservi legati tanto fortemente è sicuramente strategico. Non bisogna dimenticare che la ristorazione italiana, e napoletana in particolare, sono presenti ovunque ed è anche per questo motivo che attualmente il 50% circa del nostro fatturato si deve alle esportazioni. È significativo anzi che il primo nostro mercato sia quello giapponese dove abbiamo avuto la fortuna o la bravura di intercettare un distributore locale appassionato e altamente fidelizzato. Ha creduto nel prodotto Kbirr e ha stampato la nostra immagine persino sulle divise dei suoi dipendenti e sui suoi furgoni».
Commercializzata anche in fusti, la birra nata all’ombra del Vesuvio è però veicolata in maggior misura in bottiglia e in volumi annui oscillanti fra le 700 e le 800.000 bottiglie. Nella Penisola i riscontri più rilevanti – fermo restando il primato cittadino e campano – li ottiene a Nord e Nord Est fra la Lombardia e il Veneto. Al di là dei confini le soddisfazioni e «le più grandi vittorie» sono giunte dall’apprezzamento manifestato da parte di platee quanto mai esigenti quali quella tedesca e belga, senza dimenticare il buon andamento delle vendite sul suolo statunitense. Anche la supply chain è globalizzata.
«Crediamo – puntualizza Felice Esposito, impegnato nelle vesti di direttore commerciale e formatosi professionalmente come enologo – che la nostra gamma riesca a esprimere la napoletanità in tutte le sue sfaccettature. Ma non per questo riteniamo che si debbano privilegiare le materie prime locali. Le selezioniamo in base alla tipologia di birra che vogliamo creare e sulla scorta del terroir e dell’esperienza dei differenti territori, nonché delle esigenze del mastro birraio. Contano inoltre la stagionalità e il clima. Abbiamo acquistato malto d’orzo in Polonia ma nel 2024 ci siamo riforniti in Svezia; in passato nel Regno Unito e in Germania. Lo stesso vale per il luppolo che ha sentori diversi a seconda che venga dagli Usa o dalla Nuova Zelanda, Germania, Slovenia».