La filosofia del Birrificio Puddu, nell’orbita artigianale moderna, è riproporre birre appartenenti alla cultura anglosassone con richiami al mondo americano e incursioni nella cultura belga. Le birre dal profilo aromatico intenso hanno come denominatore la facilità di beva.
È Mauro Fanari che ci racconta lo spirito che anima questo giovane ma già importante birrificio.
Il nome del birrificio denota una scelta più emotiva che di mercato, ma quanta razionalità c’è dietro la vostra produzione?
«Nella scelta del brand da utilizzare c’è effettivamente una forte componente emotiva perché siamo persone che si appassionano in fretta, e una parte razionale, perché siamo comunque ben consci di dover gestire un’azienda. Ci appassionava l’idea di far rivivere un’azienda che ha lasciato il segno all’interno della nostra comunità. Aggiungo che c’è anche tanto coraggio nel riprendere un marchio storico degli anni 60 e proporre classiche etichette in stile vintage, anche in un formato da 66 cl, in un momento per la birra artigianale che cavalca l’onda dell’American Craft Beer Revolution, con referenze in lattina, etichette moderne e dai colori sgargianti. Dall’altra parte c’è razionalità e determinazione nell’interpretare e perseguire il progetto in chiave artigianale e il carattere British, oltre che in senso stilistico, in termini di pulizia e scorrevolezza della bevuta».
L’utilizzo delle materie prime locali per il movimento craft italiano è più un’incognita o una scelta obbligata?
«Credo fortemente nell’utilizzo di materie prime locali, sia regionali che nazionali, ma non legherei mai tutte le mie produzioni a malti e luppoli prodotti in loco. Alcune referenze, con particolare riferimento alle classiche inglesi, che allo scopo di mantenere una completa onestà produttiva, necessitano di malti, come il Maris Otter e il Brown, e luppoli come l’East Kent Golding, necessariamente provenienti dall’Inghilterra. Non voglio dire che non si potrebbero produrre con materie prime locali, ci mancherebbe, sono certo di poter sviluppare ottime inglesi anche con i nostri malti, ma perderei quelle sfumature, quei dettagli che fanno la differenza. Utilizzo attualmente una semola di grano duro della popolazione autoctona sarda “Trigu de oro” coltivata a Villamar a poche decine di km dal birrificio, con la quale brasso la Saison, e dalla quale riesco a ottenere quel carattere rustico che deve essere presente in una Farmhouse Ale. Abbiamo impiantato un piccolo luppoleto nei pressi del birrificio composto da una quarantina di piante di Comet e Cascade, che utilizzeremo per la prima fresh hop. Ho anche utilizzato malti italiani con ottimi risultati e ho in programma di sviluppare nuove ricette incorporando materie prime locali, oltre ai malti e ai luppoli, anche la frutta».
Home brewing, ricerca ed esperienze in diversi birrifici: cosa c’è oggi dentro le tue produzioni di ognuna di queste esperienze?
«Le prime esperienze con malti e luppoli sono state durante gli studi universitari nella cantina di casa dove mio nonno produceva il vino Vernaccia di Oristano. Inizialmente con pentole e fornelloni e successivamente con un impianto da 50 litri che è ancora oggi funzionante. Allora, ad eccezione di qualche forum di appassionati, le letture erano obbligatoriamente in lingua inglese e le prime produzioni venivano sviluppate a partire da ricette trovate su internet e poi via via modificate. Il punto di svolta è stato quando nell’ultimo anno di studi universitari ho avuto la possibilità di passare un periodo in Inghilterra nel birrificio Thornbrige di Sheffield, dove ho svolto parte della mia tesi di laurea. È stato il primo impatto con il mondo birrario reale: allora avevano appena inaugurato il nuovo birrificio, con impianti all’avanguardia, e di una sala cottura da 50 hl completamente automatizzata. Producevano birre eccentriche con massicce luppolature americane allora sconosciute e per quell’epoca poco “modaiole”. È stato quell’impatto a farmi innamorare di questa bevanda al punto di farne una ragione di vita e a ispirare il mio stile birrario. Ho avuto successivamente esperienze di ricerca al CERB e a Porto Conte Ricerche di Alghero dove ho avuto la possibilità di consolidare tecnica e conoscenze, di studiare e fare tanta pratica e sperimentazione. Poi “Birra Perugia”, birrificio al quale sono ancora tanto legato, che è stato il trampolino di lancio come birraio».
Qual è secondo te il segmento produttivo che necessita di un maggiore sforzo innovativo?
«Negli ultimi 20 anni nella birra artigianale si è sperimentato tanto, la creatività dei birrai è arrivata a livelli inverosimili, raggiungendo spesso ottimi risultati, come il caso delle Italian Pils e Italian Grape Ale, che sono arrivate ad essere uno stile globalmente riconosciuto. Si è perciò lavorato su tutti i segmenti produttivi in maniera importante. Dovendone scegliere uno, sceglierei quello che secondo me è il più debole, la produzione di materie prime, e in particolare la produzione e trasformazione del luppolo».
Ultimamente si assiste anche nel mondo artigianale a una riscoperta della bassa fermentazione. Quale credi sia il meccanismo che spinge verso questa direzione?
«Credo che il movimento birrario italiano sia oggi in una fase di consolidamento, la grande moda delle luppolature massicce sta fortunatamente prendendo una svolta verso una maggiore pulizia ed equilibrio. Ed è proprio in questo contesto che le basse fermentazioni hanno messo radici. I birrifici crescono in termini di volumi prodotti e si è probabilmente avvertita la necessità di ampliare la fetta di consumatori, che fino a pochi anni fa era costituita principalmente da appassionati, andando a coinvolgere anche consumatori meno esperti, che ricercano della buona birra, ma senza l’esigenza di bevute troppo impegnative. In questo contesto, la pulizia e la facilità di beva delle basse fermentazioni, come Pils e Helles, è risultata vincente. Il mondo della birra artigianale è chiaramente maturato e, mentre fino a una decina di anni fa queste produzioni venivano considerate appartenenti esclusivamente all’industria, oggi è veramente difficile trovare un birrificio che non ne abbia almeno una tra le sue referenze. Inoltre sono cresciuti gli investimenti in impianti altamente tecnologici, come fermentatori e linee di imbottigliamento in isobarico con bassissimi uptake di ossigeno, aiutando a produrre questa tipologia di birra che risulta tanto semplice nella bevuta quanto complessa nel processo produttivo».