Alla birra manca solo la parola!

Maurizio Maestrelli

Fino alla fine degli anni Novanta in Italia, e forse anche per qualche manciata di anni a seguire, se si pensava alla birra si visualizzava un prodotto generico, di colore dorato e dal bel cappello di schiuma candida. Quando si andava oltre, volendo pensare a una specifica marca di birra, ecco apparire magicamente donne bionde o gruppi di amici, solitamente uomini, intenti a guardare una partita di calcio. Ci fu, è vero, la comunicazione istituzionale con Renzo Arbore e il suo “Birra, e sai cosa bevi!”, che tra le altre cose diede un ottimo impulso ai consumi pro capite, ma gli stereotipi erano quasi sempre quelli citati. Va detto però che pure il mercato era diverso e la competizione tra birrifici si giocava sempre nel campo delle birre di bassa fermentazione, quasi sempre per l’appunto “bionde” e in qualche caso ambrate o “rosse” come si usava definirle.

Agli inizi degli anni Duemila, tuttavia, lo scenario iniziava a cambiare con la presenza dei birrifici artigianali italiani, ma anche stranieri, che iniziava a farsi sentire e con la sempre più diffusa cultura birraria che si propagava tra i consumatori a colpi di corsi di degustazione, festival birrari e serate di assaggi nei locali.

Oggi, guardando il bicchiere mezzo pieno, si può con certezza dire che sono stati fatti grossi passi in avanti. Da un lato, chi può permettersi di investire grosse cifre in campagne pubblicitarie, oltre a sostenere sponsorizzazioni miliardarie, ha virato i suoi messaggi sulla naturalità degli ingredienti, sulla presenza del luppolo, sui cereali italiani e sul ruolo del birraio che ha sostituito la bionda da copertina. È un segno, positivo, dei tempi nei quali il consumatore è più interessato al contenuto piuttosto che al contenitore o all’occasione di consumo. Ma la strada da percorrere è ancora lunga.

Soprattutto per quanto riguarda i birrifici artigianali storicamente refrattari a qualsiasi forma di comunicazione, tranne rari casi, perché considerata un cedimento al marketing e quindi alle logiche dei big. I primi anni della birra artigianale erano, in parte anche comprensibilmente, legati al volontariato, al grado di parentela e a una certa spocchia. Per la serie: “la mia birra è buona e sei tu che devi venire a berla”, “ho una cugina che ha studiato comunicazione e mi aiuta lei”, “ho un amico che mi fa le foto a gratis”.

Chi scrive, essendo purtroppo di lungo corso nell’ambiente birrario, ha affrontato episodi piuttosto deprimenti: dal birraio che non aveva una foto decente da pubblicare a quello che non aveva ancora la foto della sua nuova etichetta cambiata un anno prima. A parziale giustificazione, almeno agli inizi, si concedeva credito alla fase pionieristica, certi che prima o poi qualcosa sarebbe cambiato. Ma non sempre, e non per tutti, è stato così. Ancora oggi s’incappa in birrifici privi di un minimo di book fotografico, in altri che ci mettono settimane per mandarti delle semplici informazioni, inconsapevoli dei ritmi velocissimi che ha la carta stampata. Per non parlare del digitale.

Così è capitato che chi degnava di un minimo di considerazione i cosiddetti “comunicatori”, un calderone dove oggi convivono, non troppo serenamente a dire il vero, giornalisti veri e propri, giornalisti finti, blogger, instagrammers e influencer di vario genere, ha guadagnato rapidamente terreno rispetto ai suoi diretti competitor. Che non sono tanto, come ossessivamente ripete la vulgata, i big quanto gli altri microbirrifici che abbiano un minimo di distribuzione e un target, quello dei pub indipendenti, che assomiglia ancora al cosiddetto “collo di bottiglia” del mercato.

Cosa comunicare e come!

Certo le cose sono decisamente migliorate rispetto a una decina d’anni fa. Oggi si può dire che la maggior parte dei microbirrifici comunica. Il problema allora è cosa comunica e come lo fa. Perché mentre i big si possono permettere di usare i “cannoni”, ovvero spot pubblicitari, product placement e sponsorizzazioni varie senza badare a spese, i piccoli sono armati di fionde con le quali ogni sassata non solo resterà comunque una sassata, ma bisogna pure prendere bene la mira prima di rilasciare l’elastico. Fuor di metafora, se la comunicazione riguarda solo “la nuova birra” e si ripete ogni due mesi, l’interesse giornalistico scende di pari passo verticalmente ogni due mesi; se la comunicazione riguarda una medaglia d’oro ottenuta al concorso vattelapesca, la maggior parte dei media la considererà con uno sbadiglio considerato il numero abnorme di concorsi birrari che si tengono annualmente e ai quali i birrifici italiani partecipano senza discernimento alcuno ma solo alla ricerca di una breve, temporanea, gratificazione. Sono questi esempi, i più reiterati, di comunicazione che funziona solo ed esclusivamente sulla stampa locale, pronta comprensibilmente a gettarsi su qualsiasi cosa assomigli a una notizia locale, e nella comunicazione di settore. Ma nemmeno tutta a dire il vero.

Cosa si può fare allora di diverso per arrivare al pubblico, per usare una brutta parola, “generalista”? Mentre si esaurisce lentamente l’interesse verso la novità della birra artigianale, cosa piuttosto comprensibile visto che se ne parla da quasi vent’anni, e sgonfiatasi la bolla del cosiddetto “famolo strano” ovvero quando le redazioni chiedevano un pezzo sulle birre più creative, a volte a onor del vero semplicemente strampalate, che uscivano dal mondo della birra artigianale, che cosa ci si può inventare?

Nulla. Basta solo copiare. Ovvero, come direbbero gli americani, “think outside the box”. Perché qualcuno, all’estero e tra birrifici partiti con pochi mezzi, lo ha già fatto.

I maestri forse sono stati James Watt e Martin Dickie, il duo partito da un garage scozzese e oggi a capo di un impero tra birrifici e locali a marchio, incluso un hotel, i quali, da un lato, non si sono fatti scrupolo di affrontare il mercato della grande distribuzione, argomento sul quale in Italia c’è un dibattito così lungo e tedioso da rendere più stimolante una riunione fiume parlamentare, e dall’altro hanno colto, spesso con ironia e leggerezza, altre volte con calcolata provocazione, qualsiasi avvenimento per suonare la loro grancassa. Dalla finta battaglia con un birrificio tedesco su chi fosse capace di produrre la birra più alcolica al mondo, con gli scozzesi che dopo aver lanciato una brillante, almeno nel nome, “Sink the Bismark” chiudevano il discorso con la “The end of history”, alla risposta al leader russo Vladimir Putin, reo di aver emanato una legge che penalizzava ulteriormente l’omosessualità, con la loro “Hello, my name is Vladimir”. Una birra definita in etichetta “not for gays”, con il ritratto dello stesso Putin in stile Andy Warhol truccato con rossetto e ombretto per gli occhi e l’aggiunta, tra gli ingredienti, di “una certa dose di sarcasmo” e delle bacche che in Russia sono considerate afrodisiache per gli uomini.

E se Brewdog è il caso più eclatante, capace però con queste trovate di finire in prima pagina su tutti i principali quotidiani inglesi, un altro esempio lo si può trovare nel “You’re not worthy”, traducibile con un “Non ne sei degno” stampata a chiare lettere sull’etichetta della Arrogant Bastard Ale del birrificio californiano Stone Brewing che ebbe il risultato di far accettare la “sfida” a tantissimi bevitori, nonché a far parlare di Stone piuttosto a lungo.

Ora, qui non si pretende che si arrivi a tanto ma a “pensare fuori dalla scatola” ci si dovrebbe almeno provare. E non servono budget enormi o pianificazioni dettagliate al millimetro per farlo. Basta essere creativi o pagare qualche creativo, professionista possibilmente, per farlo.

Ecco, in buona sostanza potrebbe essere tutto qui. Il che non significa rinunciare a corsi di degustazione, festival, porte aperte nei birrifici e, ovviamente, l’intramontabile e immarcescibile passaparola tra amici e conoscenti, significa semplicemente aggiungere un po’ di pepe, un pizzico di irriverenza e di ironia, la capacità di vedere oltre lo schema materie prime – cotta – maturazione – vendita. In una parola, il talento di creare la notizia quando la notizia magari non c’è. Per farlo però si deve fare prima un bagno di umiltà: togliersi dalla testa che la propria birra sia buona e le altre no, accettare il fatto che la competizione è anche tra piccoli e non solo tra piccoli e grandi, che l’attenzione dei media non è dovuta ma va conquistata e che a farlo non si è da soli. Il più delle volte si è in tanti, qualche volta in troppi. E infine, magari, si deve investire nella comunicazione. Nessuno regala niente a questo mondo. Sarà brutto dirlo ma è così. I giornali non campano di aria e, incredibile ma vero, non campano nemmeno di abbonamenti e di copie vendute. Ci sono un paio di aneddoti che mi piace sempre ricordare e che in qualche modo sono le due facce della medaglia che sintetizzano tutto questo, lungo, discorso: il primo riguarda un birrificio italiano il cui direttore marketing, ebbene sì aveva proprio questo titolo, sfogliando una rivista svedese ultra patinata, con splendide foto e una qualità della carta ineccepibile, quindi costosa, mi fece vedere una pubblicità del suo birrificio. Alla mia domanda se avessero investito su quella rivista, il prode direttore si schernì immediatamente quasi ridendo. La sua risposta fu: “Ma quando mai? I soldi li ha messi il nostro importatore svedese!”. Il secondo aneddoto invece riguarda l’americano Sam Calagione, fondatore e titolare della Dogfish Head Brewery, ossia uno dei birrifici di maggior successo negli States, che alla domanda dell’intervistatore sulle ragioni per le quali continuava a investire su riviste del settore quando chiaramente non ne aveva più bisogno rispose semplicemente: “Quando non ero nessuno loro hanno sempre scritto di me e del mio birrificio, sostenendomi e contribuendo a farmi conoscere. Ora è il mio turno”.