Comunicare la birra è la parola chiave per Febo Leondini

 

Febo Leondini, Presidente AFDB e docente nel master in Trade Management tenuto dalla LUISS Business School, è da decenni impegnato a studiare, formare e contribuire a comunicare il settore birra.

Come descriveresti il nostro ecosistema birrario attuale?

«Le descrizioni più complete dell’ecosistema italiano le forniscono la Fondazione Birra Moretti e l’Associazione di categoria Assobirra attraverso le loro ricerche e rapporti. Per dare una visione d’insieme, appoggiandoci a questi documenti, vanno sottolineati i dati seguenti: valore complessivo, diretto e indiretto, pari a circa 9,4 miliardi di euro; numero di addetti complessivamente impiegati quasi 100.000; ettolitri complessivamente prodotti pari a circa 21 milioni di cui 450.000 attribuibili ai birrifici artigianali; un consumo pro-capite annuo vicino ai 35 litri; 814 sono i birrifici artigianali e i brewpub che occupano circa 2.800 addetti. Sono numeri impensabili fino anche a solo una decina di anni fa e dimostrano una vitalità straordinaria sia sotto il profilo della produzione che di quello del consumo, con una crescita notevole anche dell’universo femminile. Particolare interesse sta attirando il segmento delle analcoliche, anche se con quote di mercato ancora molto piccole. Certo, la maggior parte del mercato è appannaggio dei birrifici industriali, ma esiste parecchio fermento, anche nel senso letterale e descrittivo del termine, pure nel segmento delle artigianali».

Punti di forza e di debolezza?

«Qui va fatta una distinzione di massima tra i produttori industriali e quelli artigianali. Quando si parla dei primi si hanno di fronte aziende straordinarie nella cura, attenzione e gestione di tutti i processi organizzativi, operativi e di controllo. Il vero punto di debolezza di queste organizzazioni è l’inerzia reattiva di fronte all’innovazione, dipendente dalla necessità di definire procedure operative per ogni fenomeno. Altrettanto, però, esiste all’interno di queste aziende la consapevolezza del problema e, da almeno una decina d’anni, il rimedio trovato è stato quello di anticipare il mercato, anziché subirlo, attraverso una continua proposta di innovazione di prodotto. In questo la nascita e lo sviluppo delle birre artigianali ha contribuito notevolmente all’allargamento delle proposte, anche sotto il profilo culturale, da qui il famoso “le birre” di Kuaska. Riguardo ai birrifici artigianali, invece, va sottolineato un fenomeno tipicamente italiano: la frammentazione spaventosa delle aziende, e questo rende molto difficile il conseguimento anche solo di efficienze marginali di sopravvivenza. Sotto questo profilo, almeno in Italia, si equivoca spesso sul termine “artigianale”, riferendolo non solo, come è giusto, a una flessibilità e a una interpretazione originale del mercato e dei prodotti, ma anche a un modello di business senza programmazione e un po’ naif che ha portato, più di qualche volta, verso sorprese poco gradite».

Lo stiamo comunicando bene?

«Anche in questo caso siamo in presenza di un modello a due velocità che, in fondo, ha rinvii culturali affatto diversi. Da un lato, ci sono gli attori industriali i cui processi di comunicazione sono, talvolta, delle vere opere d’arte (nel 2022 Publicis per Heineken con The night is young ha vinto il secondo premio ai Clio Awards) e che giocano culturalmente sulla foodification e, quindi, su un approccio divertente, orizzontale e parzialmente trasgressivo; dall’altro, quelli artigianali che, invece, si inseriscono nel solco dello slowfooding accentuando l’attenzione ai territori, agli ingredienti e alla verticalità delle competenze. A modo loro ognuno dei due segmenti si sta muovendo correttamente in rapporto ai mezzi disponibili e, infatti, secondo l’ultima analisi condotta da Rep Track la reputazione del prodotto Birra è in continua crescita presso i consumatori italiani».

«la reputazione del prodotto birra è in continua crescita»

Negli ultimi anni le associazioni di categoria si sono unite per richiedere sostegno congiunto alle Istituzioni e credo che sia evidente l’utilità anche per il futuro. Anche qui ci sono margini di miglioramento nel comunicare insieme e quindi alle Istituzioni per ottenere maggiore supporto?

«Direi che si sono ottenuti risultati straordinari dal lavoro congiunto delle associazioni, con l’ottenimento della riduzione delle accise e il riconoscimento istituzionale della filiera brassicola».

Gli economisti americani di settore hanno evidenziato già da alcuni anni l’importanza della credibilità del settore birrario artigianale. L’Italia sta facendo bene i compiti?

«Sono due segmenti, quello statunitense e quello italiano, che solo nominalmente appartengono allo stesso settore. Le dimensioni unitarie del primo sono talmente diverse da renderlo inconfrontabile con quanto caratterizza i birrifici artigianali italiani. Spesso, solo per dare un’idea, negli Stati Uniti un birrificio artigianale sviluppa volumi maggiori anche di un corrispondente industriale italiano. Chiarito questo, l’attenzione al segmento artigianale è alta sia in USA che in Italia con tutte le differenze del caso. L’artigianalità italiana ha caratteristiche del tutto diverse rispetto a quella d’Oltreoceano e, quindi, è un parallelo impossibile».

Cosa pensi delle sinergie con le altre filiere?

«Su questo aspetto in Italia negli ultimi 5 anni si è fatto molto. Il pensiero corre allo sviluppo della coltivazione di luppoli autoctoni, all’integrazione con la coltivazione di orzo e alla relativa messa in blockchain permissioned dei certificati, in aderenza ai dettati europei relativi al percorso F2F. Certo, ancora molto resta da fare ma siamo solo agli inizi. In quest’ambito molto aiuto può arrivare dalla digitalizzazione dei processi di accreditamento e certificazione delle coltivazioni e delle tecnologie produttive, ma non dimentichiamo anche la necessità di tracciamento dei passaggi commerciali che sono, ad oggi, ancora non del tutto trasparenti, complice una frammentazione dell’offerta unica nel panorama europeo».

La mixology è uno strumento di valorizzazione per la birra?

«Sì, ma soprattutto per la piattaforma culturale ricorrente più che per i processi sottostanti. Mi rifaccio sul punto alla tensione tra i due poli della foodification e dello slowfooding. Il portato culturale del primo, con il suo invito a godere del momento spensierato, va oltre il prodotto in quanto tale per connotarne culturalmente il significato. Se pensiamo ad un prodotto come 1664 o Capri, pur essendo in presenza di una birra, e quindi non di una base per la mixology in senso stretto, altrettanto dobbiamo dire che il suo consumo è di per se stesso un atto mixato, blended. Di carattere diverso è, invece, quello riferito allo slowfooding, dove l’atto del mescolare è visto come una perdita di identità quasi sacrilega. A ben guardare si tratta di due aspetti simmetrici che, però, si riferiscono a due modelli di business diversi e molto distanti tra loro. Da un lato, abbiamo un’Industria che vive di innovazione e di contenuti culturali miscelati; dall’altro, un Artigiano che fa della sua unicità il tratto distintivo del suo artefatto. Entrambi questo aspetti hanno contribuito alla valorizzazione della birra e continuano a farlo».