La stabilità della birra rimane una delle più grandi sfide dell’industria birraria. Eppure, nell’ultimo secolo sono stati fatti passi da gigante. Prima di entrare nel merito dell’articolo è giusto fare un po’ di storia dell’evoluzione della birra in termini di stabilità. Un primo grande aiuto alla diffusione su larga scala è stata la pastorizzazione, trattamento termico che prende il nome da Louis Pasteur e dai suoi studi, sviluppati in maniera pratica dal francese Appert. I primi esperimenti sulla birra in realtà si ritrovano prima ancora dei famosi “Études sur le vin” di Pasteur del 1866, dove studiò l’effetto del calore sul vino e dei celebri “Études sur la bière” del 1876. Infatti, nel 1845, un brevetto sviluppato di Messrs, W. Maugham e Arch. Dunlop in Regno Unito, spiegava che in assenza di aria si poteva ottenere un arresto della fermentazione a temperature tra 65 e 71 °C. Un lavoro del 1892 indica che 30 minuti a 70 °C sono sufficienti per mantenere stabile la birra per almeno 4 mesi. Già negli anni 20 del secolo scorso la pastorizzazione era molto praticata nell’industria birraria. Infatti, in un lavoro si legge come le temperature ideali per stabilizzare la birra erano tra i 54 e i 71 °C per un tempo di circa 30 minuti (Chickens, 1923). Addirittura, in Germania, le birre ad alta fermentazione chiamate “malzbier” venivano pastorizzate a circa 50 °C, dove però si puntualizzava la necessità di svolgere fermentazioni pulite, perché meno la birra è contaminata più bassa può essere la temperatura di pastorizzazione (Rühl, 1911).
Altro aspetto della stabilità della birra è l’ossigeno. Si è passati dall’avere 5 ml di ossigeno nello spazio di testa negli anni 70 a un valore ottimale attuale inferiore a 1 ml. Questo ha permesso di aumentare enormemente la shelf life della birra. Oltre a questo, chiarito il concetto che un prodotto più è pulito e più è stabile, si è lavorato molto sulla stabilità della birra in termini di rimozione di componenti che potessero diventare origine di difetti. Già nel 1900 venivano prodotte le “non-deposit beer”, con trattamenti di cooling, carbonazione, filtrazione e pastorizzazione delle bottiglie, per rispondere alla domanda sempre crescente di birre leggere, bevibili adatte a un consumo giornaliero (Rühl, 1911). A proposito di pulizia della birra, Helm riportava una classificazione delle possibili origini della torbidità non biologica dividendo in chill-haze, oxidation-haze, torbidità da amido e destrine residue, da metalli e da ossalati (Helm, 1936).
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