Maurizio Maestrelli è forse la firma più conosciuta nel mondo della birra italiana. Giornalista professionista e scrittore, segue da oltre vent’anni il settore, partecipando come giudice ai maggiori concorsi birrari internazionali. Ha svolto inoltre attività di consulenza con diverse aziende, piccole e grandi, di questo mondo.
Ti occupi di birra da molto tempo. Come è nata questa passione?
Ho iniziato come giornalista in cronaca a Venezia poi, dopo essermi trasferito a Parma, mi sono occupato sempre di cronaca per un settimanale locale, ma frequentavo spesso un pub irlandese del centro storico e lì ho scoperto che esisteva una rivista dedicata alla birra. Al tempo, eravamo alla metà degli Anni Novanta, ero un consumatore appassionato e un modesto collezionista di bicchieri. Iniziando a scrivere ho scoperto un settore e un mondo affascinante e che stava cambiando rapidamente. Nuove birre continuavano ad apparire sulla scena e stavano nascendo i primi birrifici artigianali. Era un periodo entusiasmante.
Che cosa ti colpiva maggiormente?
Il fatto che la birra potesse essere declinata in infiniti modi diversi e il fatto che fosse una bevanda alcolica ancorata a tradizioni secolari da un lato, ma capace di lasciar esplodere tutta la creatività possibile dei birrai, liberi cioè anche di innovare.
Sei conosciuto per essere equidistante da birrifici piccoli, medi e grandi e ti occupi di tutte le loro birre. Un collega ti ha descritto come un giornalista “dall’approccio laico”…
È vero, ma l’approccio laico o equidistante dovrebbe essere un requisito di ogni giornalista. Altrimenti si fa un altro mestiere. Cerco di non confondere mai le mie preferenze personali da quello che è il racconto delle diverse realtà. Seguo il settore che è rappresentato sia dalle multinazionali sia dai piccoli birrifici. Sono due facce della stessa medaglia. Possono anche essere differenti, ma sono entrambe espressioni di un mondo di cui da oltre vent’anni faccio parte e che cerco di raccontare al meglio delle mie capacità.
Ma questa differenza ha un senso?
Beh, è una differenza che certamente esiste e pertanto ha un senso. La rivoluzione craft partita negli Stati Uniti negli Anni Settanta è stata una reazione all’omologazione del gusto imperante in quegli anni. I pionieri della birra artigianale hanno scommesso sul fatto che il consumatore fosse pronto per nuove sensazioni nel proprio bicchiere e la scommessa si è rivelata vincente. Negli Stati Uniti così come, ormai praticamente, in ogni angolo del mondo.
Oggi però anche le grandi aziende nazionali e internazionali differenziano il loro catalogo e riscoprono vecchi stili…
Certo, perché il mercato va in questa direzione e le aziende si adeguano. Così come si adeguano i piccoli che, se possono, diventano sempre più grandi: aprono locali bandiera o addirittura nuovi impianti in altre nazioni. È il mercato, per i primi, ed è la natura umana, per i secondi. Non ci vedo niente di oltraggioso o di preoccupante a patto che ci sia chiarezza di proposte e di intenti. Da un lato, vorrei che tutte le birre fossero identificabili per ingredienti e per origine di produzione, dall’altro, vorrei che si smettesse di invocare una sorta di rivoluzione culturale, se non addirittura spirituale, per quello che è semplicemente economia e commercio.
Come vedi il futuro della birra italiana?
Complicato. C’è un affollamento di birre sul mercato come non si era mai avuto prima. Molti piccoli birrifici continuano a sfornare nuove birre a ritmo quasi delirante ma che evidentemente soddisfa un certo tipo di clientela. Tuttavia mi sembra che questa sia una scelta strategica poco lungimirante: una nuova birra ogni settimana, un nuovo luppolo al mese o chissà che altro servono a intercettare la nicchia dei consumatori più appassionati e attenti alle novità. Ma non costruisce il proprio marchio, la propria credibilità sul lungo termine e non fidelizza i consumatori. Credo si lavori poco o nulla sul marketing o sulla comunicazione, in parte perché queste due parole sembrano significare investimenti al di fuori della portata dei micro. Ma non è così. Contano le idee, non solo i soldi. E nemmeno, o non così tanto, le birre “nuove” a ogni pie’ sospinto.
Quale ritieni sia l’immagine della birra italiana e come si potrebbe esaltarla maggiormente?
L’immagine, ma anche il contenuto, della birra italiana è cresciuto mediamente molto negli ultimi anni. Molti birrifici artigianali sono riconosciuti e apprezzati all’estero, ottengono medaglie nei concorsi più prestigiosi come Brussels Beer Challenge, European Beer Star e World Beer Cup e sono richiesti e presenti in molti festival europei. Le birre nazionali come Nastro Azzurro e Birra Moretti si sono affermate con una indovinata comunicazione di Italian Way of Life. Insomma, all’estero l’Italia della birra esiste. Anche l’affermazione di uno stile riconosciuto come Made in Italy ovvero le Italian Grape Ale è un segnale importante di riconoscibilità per tutto il settore. Per esaltare maggiormente la birra italiana, al di là degli sforzi dei singoli birrifici, credo uno strumento utile sia quello di legarla in maniera più stretta alla cucina italiana che è presente ovunque e gode di una solida fama. Si tratta solo di convincere i clienti, come si sta facendo da qualche tempo a questa parte anche in Italia, che i nostri piatti della tradizione possono incontrare con successo anche le nostre birre. E non solo i nostri vini».