La proposta di riformulare le norme relative alle imposte di fabbricazione sul tavolo della Commissione Europea ha riacceso il dibattito anche sui media: l’annosa questione delle accise che gravano sui piccoli produttori di birra artigianale italiana deve essere sanata. Ma per risolvere questo, con l’aiuto degli interlocutori giusti, innanzitutto «dobbiamo parlare la stessa lingua». Così espone il problema Vittorio Ferraris, presidente di Unionbirrai. A un’attenta analisi il problema delle accise, infatti, sembra essere un mostro a due teste.
La prima testa
Da un lato, c’è la questione della pressione fiscale: oggi un microbirrificio viene tassato alla stessa maniera di uno appartenente a un gruppo o a una multinazionale, in aperto contrasto con le direttive europee. Per quanto riguarda l’aspetto fiscale, cioè un’eventuale agevolazione in merito alle aliquote, è una questione che abbraccia l’intero mondo di produzione dei microbirrifici, quindi coloro che sono – teoricamente e per la direttiva comunitaria europea – considerati tali al di sotto dei 200.000 ettolitri. Questo è in contrasto con il fatto che quel poco che l’Italia ha normato in merito all’assetto fiscale dei microbirrifici, l’ha fatto considerando i 10.000 ettolitri annui (D.Lvo 26.10.1995, n. 504 e dal D.M. 27/03/2001 nr. 153 e successiva Determinazione Direttoriale dell’Agenzia delle Dogane prot. 140839/13 del 04/12/2013). Si tratta di norme in deroga al Testo Unico sulle Accise dove si specifica che al di sotto dei 10.000 ettolitri ci sono delle condizioni particolari nella produzione birraria italiana, anche se solo per quanto riguarda l’assetto dei depositi e i sistemi di accertamento d’accisa e non come applicazione di aliquote fiscali. Per tutte le battaglie di tipo fiscale, è ovvio, dice Ferraris, «che noi dobbiamo tenere i 200.000 hl come parametro di riferimento, anche se con riduzione di aliquote fiscali a scaglioni di produzione, perché altrimenti andiamo in contraddizione con le direttive comunitarie europee. Noi siamo uno dei sei Paesi della Comunità Europea dove queste condizioni non sono mai state applicate».
Tutti i Paesi produttori di birra, compresi quelli mediterranei e con una lunga tradizione vinicola, hanno accolto queste indicazioni che ammettono agevolazioni sul versamento dell’accisa fino a un 50% in meno se il produttore è al di sotto dei 200.000 ettolitri annui. Tutti, tranne l’Italia. Questa è una battaglia, precisa Ferraris «che va condotta a un tavolo di tipo governativo anche grazie alle direttive della Comunità Europea che sono chiare e precise, ma che non sono mai state messe in pratica.» Dalla Commissione Europea, nel mese di maggio 2018, è arrivato un ulteriore messaggio di apertura su questo argomento. Durante le due consultazioni, alle quali era presente anche Unionbirrai, è stato proposto di riformulare le norme relative all’accisa sull’alcol nella UE, nell’intento di preparare la strada «a un ambiente più favorevole alle imprese, a costi ridotti per i piccoli produttori di alcol e a una migliore tutela della salute dei consumatori». I punti salienti sono due:
- istituzione di un sistema di certificazione uniforme, riconoscibile in tutti i paesi dell’UE, a conferma dello status dei piccoli produttori indipendenti in tutta l’Unione. Ciò consentirà di ridurre i costi amministrativi e di conformità per i piccoli produttori che, a determinate condizioni, dovrebbero beneficiare di aliquote di accisa ridotte;
- aumento dal 2,8% vol al 3,5% vol della soglia per la birra a bassa gradazione alcolica che può beneficiare di aliquote ridotte incentiverà i produttori a essere innovativi e a creare nuovi prodotti. Ciò dovrebbe incoraggiare i consumatori a scegliere bevande alcoliche con una gradazione alcolica inferiore rispetto a quelle normali, riducendo così l’assunzione di alcol.
Sembrano passi avanti, ma Ferraris commenta cauto: «L’amministrazione italiana ora li deve recepire! La Comunità Europea dà suggerimenti e direttive, questi non sono obblighi. Da un punto di vista filosofico e logico penso che sia molto importante che qualcuno a livello comunitario ponga l’attenzione su questo argomento, che va sicuramente affrontato».
La seconda testa
Un altro grande ostacolo che un microbirrificio deve affrontare riguarda la modalità di accertamento dell’accisa. E qui la trama si infittisce. La ratio è: se le piccole imprese dovessero applicare tutti i parametri della normativa sulla produzione birraria (attrezzature, strumenti di controllo eccetera) non riuscirebbero a sostenersi. A loro si applica, quindi, un regime cosiddetto semplificato. L’Art. 4 del DM 27/03/2001 nr. 153 definisce l’assetto del deposito fiscale e le procedure di controllo, ma il comma 3 recita che per le produzioni inferiori ai 10.000 ettolitri annui, destinate alla sola attività di mescita in attiguo locale e alla vendita al minuto, «l’assetto del deposito fiscale e le modalità di controllo della produzione sono stabiliti di volta in volta dall’Agenzia». In alcune circolari successive dell’Agenzia delle Dogane questa norma poi è stata estesa anche ai depositari con sola distribuzione al minuto e all’ingrosso, quindi anche senza attività di mescita attigua allo stabilimento. Senza specifiche chiare, l’interpretazione della norma è stata lasciata alle Agenzie Locali (Provinciali), cosa che ha portato alla definizione di assetti molto differenti tra i birrifici sul territorio nazionale con produzione inferiore ai 10.000 ettolitri annui. Anche l’introduzione della Determinazione Direttoriale dell’Agenzia delle Dogane prot. 140839/13 del 04/12/2013 che descrive più dettagliatamente l’assetto del deposito e sancisce in maniera inequivocabile il sistema di accertamento sul mosto, e non sul prodotto finito come da Testo Unico Accise, non può considerarsi un risultato positivo perché una delle conseguenze di questa semplificazione è che i microbirrifici artigianali pagano l’accisa anche sullo scarto di birra.
Ferraris su questo aspetto interviene: «Dal punto di vista del processo produttivo, è una grande semplificazione. Per i piccoli produttori il 15% che viene pagato in più, che è esattamente il coefficiente di resa tra il semilavorato e il prodotto finito, è in gran parte compensato dai risparmi in termini di controllo e gestione del processo produttivo, e dal minor rischio di sanzione amministrativa perché non sei in grado di soddisfare una normativa così complessa. «Se però andiamo su birrifici di medie dimensioni, sui 10.000 ettolitri e oltre, questo assetto non viene adottato perché è sì una semplificazione ma quel 15% in più, in valore assoluto, diventa una pressione fiscale ingiustificata. Noi ci battiamo da anni, e il nostro interlocutore su questo punto è il Ministero delle Finanze, dicendo, ma perché ci costringete comunque a pagare di più? Il nostro obiettivo è rimanere in un sistema semplificato, dove però ci riconoscono questo scarto». Uno degli obiettivi primari, comunque, è cercare di semplificare al massimo e omogeneizzare le modalità di trattamento su tutto il territorio nazionale.