Jungle Juice: birra di quartiere nel centro di Roma

La storia di Umberto Calabria e del birrificio Jungle Juice, come succede sempre più spesso, parte da un pentolone e poco altro nella cucina di casa. Ma quando la passione inizia a essere troppo “invadente” e la cucina il regno incontrastato di malti e luppoli, aprire una beerfirm sembra essere il passo più ovvio.

C’era una volta una volta una beerfirm

«Non posso dire che ci siano state difficoltà vere e proprie perché non ce ne sono state, ma quando ho iniziato con la beerfirm, a maggio 2014, il mercato era indubbiamente molto diverso. La fatica principale in quella fase era che ero solo, sia per la produzione sia per la logistica, l’amministrazione e quel che concerne tutto il resto, ed era particolarmente frustrante perché volevo fare più birra, ma facevo fatica a starci dietro. In tutto questo, sempre ai tempi della beerfirm, avevo un lavoro full time… ora, invece, sarebbe impossibile, sono passato al part time, è una decisione difficile tenere due lavori. Ma è necessario perché, in birrificio, abbiamo deciso almeno per i primi tempi di non darci stipendio e di reinvestire tutto qui. Al lavoro faccio otto ore al giorno per tre giorni, e il resto del tempo a mia disposizione lo passo tutto qui.»

Jungle JuiceFormazione sul campo

Tutti i beerfirmer sognano un proprio birrificio? Non è del tutto vero. C’è chi lo intende come preludio a una fase più “stabile”, con un birrificio proprio, e chi invece non ha intenzione di aprire un’attività in proprio, per tutta una serie di ragioni. Il birraio di Jungle Juice sembra non aver nemmeno preso in considerazione quest’ultima opzione e, anzi, già in fase beerfirm, sente il bisogno di “qualcosa di più strutturato” perché fare birra non è mai abbastanza. «Il cambiamento da beerfirm a birrificio è grande perché è tutto diverso, c’è chi ne parla male ma non capisco veramente perché. Io ho fatto così formazione contemporaneamente a gestire tutte le fasi di un’attività in via di sviluppo. Facevo la birra in diversi impianti proprio perché volevo vedere come funzionavano diversi birrifici e avere le idee più chiare possibili. Da beerfirm ho fatto birra negli impianti di Piccolo Birrificio Clandestino, Turan, La Fucina, Eternal City Brewing e Hilltop. E la cosa mi è servita quando è stato il momento di strutturare il mio impianto, perché ho visto che cosa funzionava e che cosa no. Lavorare così era sì stimolante, ma ripeto ero solo e serviva qualcosa di più strutturato. La cosa più difficile, anche più dell’investimento, credo sia trovare delle persone che lavorano in modo coordinato e si dividano i compiti con cui aprire una società. Ora, il “peso” è indubbiamente peggiorato, sia in senso lavorativo sia di investimento, ma paradossalmente è più facile cambiare, modificare le ricette e stare dietro alle birre e tutto il resto dell’attività con margini di miglioramento estremamente più rapidi. Poi ovviamente non devo più lavorare con una struttura che ha i suoi tempi e la sua organizzazione e non sono più legato al modo di lavorare unicamente del birrificio che mi ospita. Con un birrificio di proprietà la velocità di cambiamento e di miglioramento è più immediata, assieme a un indubbio vantaggio di contraddistinguersi più facilmente con il proprio “marchio”.»

L’impianto

Durante la fase di beerfirm, Umberto è riuscito ad apprendere molte cose dai birrai che ha incontrato. Orecchie ben aperte e occhi attenti lo hanno aiutato in molte decisioni, come quella fondamentale del tipo di impianto sul quale investire. «Il primo anno abbiamo raggiunto poco meno di 1000 ettolitri. L’impianto per ora va bene, ma quest’anno dovremmo aumentare la cantina tra il 40 e il 60%, prendendo altri tini da 3000 l. L’impianto è di Spadoni con sala cottura a due tini riscaldati, uno che fa ammostamento e filtrazione, l’altro bollitura e whirpool. Così possiamo fare la doppia cotta velocemente. Non abbiamo mai filtrato, facciamo solo un abbattimento a freddo che varia nei tempi da birra a birra. Confezioniamo in isobarico, ma rifermentiamo tutte le belghe. Abbiamo iniziato da poco a fare le birre luppolate in isobarico, per cui ora tutte quelle tendenzialmente amare, a basso grado alcolico, con malti chiari sono tutte così. Ci piacerebbe proporre in futuro le nostre birre anche in lattina. I prezzi per un macchinario adeguato sono sempre alti, ma non è tanto quello che mi preoccupa, quanto il mercato che ci sta dietro e i numeri… non oso immaginare quante lattine dovremmo fare per ammortizzare un costo del genere.»

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