Simonmattia Riva. Professione: campione mondiale Biersommelier

Ho conosciuto Simonmattia Riva durante il concorso “Birra dell’anno del 2016”, fresco vincitore del Campionato Mondiale dei Biersommelier Doemens, l’istituzione di Monaco di Baviera che dal 1965 si occupa della formazione di manager e sommelier in ambito birrario. Simonmattia inizia a incuriosirsi al mondo delle birre di qualità nei primi anni Novanta grazie a una Chimay Blu degustata in un piccolo locale in montagna. La passione verrà alimentata spulciando le carte della birra di locali e gli scaffali dei negozi, non potendo contare né sui birrifici artigianali italiani, che non erano ancora nati, né sulla rete. Il primo corso di avvicinamento alla birra avviene nel 2004 alla biblioteca di Macherio (MI) con Franco Re e alcuni suoi allievi, e avendo sentito citare Lorenzo “Kuaska” Dabove, pochi mesi dopo partecipa a una sua degustazione guidata al Mulligan’s Pub di Milano grazie al quale impara a conoscere la tradizione e l’avanguardia belga e i microbirrifici italiani. Da quel momento la formazione è passata attraverso la frequenza dei corsi Unionbirrai nel 2007 e aderendo alle associazioni “Compagnia del Luppolo” di Bergamo e a Movimento Birra (MoBi), dei quali diventerà consigliere. Il salto di qualità definitivo è rappresentato dalla frequenza del corso Biersommelier presso la Doemens Akademie nel 2013/2014, che di fatto sancisce il passaggio dalla passione amatoriale a quella professionale.

Simonmattia Riva

È dell’anno seguente la prima al Campionato Mondiale dei Biersommelier Doemens e la vittoria, superando candidati esperti e preparati in prove di degustazione alla cieca, riconoscendo difetti e superando test teorici sugli stili birrai e la storia della birra. La prova finale, riservata ai 6 finalisti individuati grazie ai risultati dei test precedenti ha portato Simonmattia a servire e presentare una birra, scelta tra tre bottiglie svelate all’ultimo momento, davanti a una giuria composta da 6 persone e di fronte al pubblico della fiera DeGusta di San Paolo del Brasile.

Da giugno 2015 lavora quotidianamente dietro le spine del Beer Garage di Bergamo, occupandosi della selezione delle referenze, della spillatura e dell’organizzazione di corsi e serate a tema.

Qual è il primo passo per diventare Biersommelier campione del mondo?

Dal punto di vista formale occorre essere Biersommelier diplomati alla Doemens Akademie oppure sommelier vinicoli certificati da una realtà riconosciuta a livello internazionale, anche se, ad oggi, nessun sommelier del vino ha inoltrato la domanda. Sono a conoscenza di uno che ha preso parte, nel febbraio scorso, al campionato italiano Biersommelier ma senza guadagnare l’accesso al Mondiale di Monaco di Baviera in settembre. Dal punto di vista sostanziale occorrono una feroce passione per le birre e tanto studio su: produzione, storia, stili e abbinamenti gastronomici per citare i più importanti.

La vittoria al campionato mondiale ha cambiato la tua percezione sulla birra artigianale italiana?

No, perché già prima ero consapevole che il nostro Paese avesse eccellenze birrarie di prim’ordine, sia in ambito produttivo, che tra i degustatori e conoscitori, dal momento che siamo ancora pochi italiani all’interno della Doemens Akademie, non mi immaginavo però di poter vincere il campionato in un confronto con 53 colleghi provenienti da tutto il mondo.

 All’estero genera curiosità il fatto che tu abbia di fatto spezzato l’egemonia di tedeschi e austriaci?

Ovviamente ciò ha generato curiosità, soprattutto in Germania e Austria, e incrementato ulteriormente il rispetto e l’attenzione verso la scena birraria italica, che già erano notevoli grazie ai successi dei nostri birrifici nelle competizioni internazionali. Credo che il mio successo sia servito a far capire che anche in Italia ci sono degustatori preparati e se abbiamo forse qualcosa in meno sul piano della tecnica pura rispetto a chi proviene da Paesi di tradizione birraria, possiamo contare sulla competenza derivante dalla familiarità con il cibo e le sue materie prime della tradizione gastronomica, che ci permette di riconoscere sentori di frutti, spezie, vegetali e fiori molto più efficacemente rispetto ai colleghi del Nord Europa. Uno degli aspetti più belli della mia avventura al Mondiale è stato il grande fair play che regna nella famiglia Doemens: non solo i vari brasiliani, americani, cileni, svizzeri erano contenti che una nuova nazione avesse portato a casa il titolo sperando che un domani toccasse alla loro, ma anche tedeschi e austriaci erano contenti perché sostenevano che la mia performance fosse stata la migliore: l’abbraccio che mi ha riservato Guido Grote, il commerciale dalla Schneider Brauerei e uno dei migliori Biersommelier tedeschi, prima di salire sul palco per ritirare il primo premio non lo dimenticherò mai. Guido, con cui avevo stretto amicizia nei giorni precedenti, aveva lacrime di gioia per me che pure avevo superato due suoi connazionali.

Che ruolo ha la corretta divulgazione della cultura birraria nel panorama Italiano e come ci si difende dai “cattivi maestri”?

In un Paese che si sta costruendo in questi anni la propria cultura birraria, una corretta ed efficace divulgazione è determinante, ogni passo in fallo ha un effetto molto più forte che in Paesi di tradizione birraria perché ci sono meno antidoti, meno consapevolezza diffusa e si rischia veramente di creare dei “mostri” convinti di sapere quando in realtà non sanno. In questo contesto, in cui percorsi formativi ben strutturati e di valore, oltre a Doemens Italia penso anche a MoBi, Fermento Birra e Unionbirrai, si stanno consolidando e acquisendo riconoscibilità, c’è purtroppo ancora spazio per gli “apprendisti stregoni”, persone che hanno fiutato il business della formazione in ambito birrario e si propongono al pubblico come conduttori di serate o docenti quando sarebbero loro i primi a dover seguire un buon corso e imparare qualcosa. Mi è giunta notizia che in Nord Italia, non lontano da me, c’è uno di questi personaggi che promette di trasformare i suoi allievi in Bier Sommelier (uno spazio tra le due parole fa la differenza) in sole quattro lezioni, peccato che lui non sia nemmeno per sogno Biersommelier Doemens, ha solo seguito un corso con un’associazione italiana (la fu Associazione Degustatori Birra) venendo per giunta bocciato all’esame finale. Oggi il web permette di reperire informazioni molto rapidamente, quindi il consiglio è: se state pensando di seguire un corso non organizzato da una realtà strutturata (Doemens, MoBi, Fermento Birra, UnionBirrai) informatevi bene su chi siano i docenti e cercate informazioni su un comune motore di ricerca. Se trovate poco o nulla riguardo alla loro formazione o al loro coinvolgimento nel mondo birrario, diffidate e rivolgetevi altrove.

Per le attività che svolgi in ambito birrario hai a disposizione diversi punti di osservazione. Come fotograferesti il panorama italiano utilizzandoli in maniera selettiva?

è uno scenario in rapida evoluzione: come publican e docente nei corsi di degustazione posso osservare un sempre maggiore interesse al tema e alla volontà di capire cosa si ha nel bicchiere, da dove provenga e come sia possibile esercitare il proprio diritto di scelta. Questo non significa che non ci siano più i clienti che chiedono una “birra normale”, una “birra rossa” (un vero e proprio dilemma: il publican deve cercare di interpretare cosa intenda il cliente per birra rossa: ha in mente una lager ambrata, dolce a bassa gradazione? Una ambrata belga ad alta gradazione? Una Irish Red?) ma la curiosità sta decisamente aumentando, fattore del resto prevedibile in un Paese come il nostro in cui vi è un’analoga attenzione al cibo e ai vini. Parlando con i birrai o gli aspiranti tali emerge invece un altro aspetto della realtà, legato alle dinamiche di mercato e alle prospettive future. Nelle motivazioni di chi vuole iniziare si possono sovente riscontare due argomenti opposti ma entrambi potenzialmente pericolosi: da un lato, chi crede che la birra artigianale sia un facile business e quindi un modo rapido e divertente per guadagnare parecchio, dall’altro, l’illusione che bastino la passione per il prodotto o i complimenti degli amici per le proprie birre da homebrewer per fondare un’azienda di successo. Quando qualcuno mi dice “mi piacerebbe aprire un birrificio” lo metto sempre in guardia rispondendogli: “le possibilità ormai sono solo due: o hai le risorse per partire già grande e ingaggiando un birraio di comprovata esperienza, oppure punta sul brewpub”. Quando si parla con titolari di birrifici storici o già consolidati, infatti, emerge sempre più la notazione “siamo in troppi”: malgrado l’interesse crescente per il prodotto artigianale, infatti, il consumo medio di birra in Italia è sempre inchiodato a 30 litri annui pro capite e aumentando il numero dei birrifici, la fetta di torta finisce per assottigliarsi per tutti.

Da anni, tra gli addetti ai lavori, si dice che ci sarà prima o poi un ridimensionamento del numero dei microbirrifici, anche se la quota dei consumi di birra artigianale rispetto al consumo totale di birra dovesse continuare a salire, come tutti auspichiamo e come avviene da trent’anni negli USA: il momento della selezione darwiniana non è ancora venuto ma non tarderà, anche le cessioni e le fusioni di birrifici sono un segnale da non sottovalutare in questa direzione. A parte il clamore suscitato dall’acquisto di Birra del Borgo da parte di AB Inbev, infatti, tra il 2016 e questo scorcio di 2017 ci sono state anche la cessione del birrificio Doppio Malto (operativo fin dal 2004) alla catena di fast food Old Wild West e la fusione tra i birrifici Opera e Pavese e credo non resteranno episodi isolati.

Qual è il tuo ruolo all’interno del MOBI?

Sono membro del consiglio direttivo e sono il delegato all’organizzazione dei corsi di degustazione, che per essere attivati necessitano del supporto delle associazioni locali e del publican che andrà ad ospitare il corso. Ho partecipato alla ristrutturazione su tre livelli dei nostri corsi di degustazione e sono fiero di aver elaborato i programmi e buona parte del materiale didattico che viene usato nei corsi MoBi. A proposito di percorsi formativi, il nostro vicepresidente Norberto Capriata ha da tempo proposto a Fermento Birra e Unionbirrai di collaborare per raggiungere una certificazione comune dei nostri corsi di degustazione e per permettere a una persona che frequenti il corso di primo livello con un’associazione di poter accedere al secondo livello di un’altra se logisticamente gli è più comodo, spero che questo obiettivo possa essere raggiunto perché sarebbe un ottimo servizio per il cliente finale.

Che tipo di approccio hai con i consumatori nel locale che gestisci? Come ti comporti con il neofita?

Potremmo definirlo un approccio “psicologico”: non mi metto certo a fare la parte del sapientone che pretende di insegnare tutto al cliente perché sarebbe solo controproducente né voglio intimorire la gente con spiegoni che annoierebbero mortalmente. Il punto di partenza è ciò di cui ha voglia il cliente in quel momento, dal suo desiderio cerco poi il mezzo migliore per soddisfarlo con le birre che ho a disposizione in quel momento: è un approccio che mi sta dando molte soddisfazioni, basti pensare che da qualche mese a questa parte le Heller Bock, uno stile non certo di moda, sono tra le top seller, subito dopo le immancabili IPA nelle loro varie declinazioni e le Pils, perché i molti che chiedono una “birra rossa” hanno scoperto che questa tipologia, pur essendo caratterizzata dal colore chiaro, ha tutte le caratteristiche che cercavano in una birra “rossa”, ovvero prevalenza dei sentori maltati rispetto a quelli di luppolo, buon corpo e buon tenore alcolico, con una bevibilità nettamente maggiore rispetto alle “rosse forti” commerciali. Una volta soddisfatto il bisogno primario e conquistata la sua fiducia si può poi azzardare ad accompagnare la persona verso altri lidi, facendogli conoscere profumi e sapori che non ha ancora esplorato. Il neofita è ovviamente il benvenuto e il cliente più desiderabile. Perché è bellissimo vederne la trasformazione da timido e spaurito personaggio che chiede “una birra che vuoti tu, io non me ne intendo” a curioso ed esigente consumatore che vuole più informazioni possibili su ciò che sta gustando. Non sono invece un fan a tutto tondo del vecchio adagio “il cliente ha sempre ragione”: se mi stai chiedendo una fesseria, come servire una Pils senza schiuma o una birra più fredda di 6°C, ti dico con educazione e rispetto che quello che mi stai chiedendo va contro i tuoi interessi di bevitore assaggiare una birra in quelle condizioni.

Il mondo birrario vive di dualismi come nello sport: artigianale vs industriale, birra vs vino, tradizione vs innovazione. Va bene basta che se ne parli, o a lungo andare può essere controproducente?

Alcuni dualismi sono veramente privi di senso, in primis birra vs vino, perché si tratta di due bevande che accompagnano l’umanità da millenni ed entrambe ricche di storie da raccontare e meritevoli di devozione e rispetto. Anche il dualismo tradizione/innovazione lo vedo superfluo, perché ogni tradizione non è immutabile se si innova rispetto a qualcosa che esisteva prima. Artigianale vs industriale invece è una contrapposizione che può avere un senso perché gli obiettivi di fondo più ancora che le metodologie di lavorazione sono diverse: l’industria, in qualunque campo dell’agroalimentare, realizza un prodotto che magari non fa impazzire nessuno, ma al contempo non dispiace alla più ampia gamma possibile di consumatori; l’artigiano realizza prodotti di carattere, a volte anche estremi, e in cui crede. Attenzione però: ciò non garantisce che artigianale sia sempre sinonimo di qualità elevata e industriale sia sempre sinonimo di bassa qualità.

Sei stato giudice in diversi concorsi birrari. Quale pensi sia la reale utilità di questi concorsi e perché alcuni produttori preferiscono non partecipare?

Dal punto di vista di un giudice, i concorsi sono bellissime occasioni in cui ci si trova con colleghi di tutto il mondo e si impara molto reciprocamente, oltreché fornire un’istantanea sulla realtà e le tendenze birrarie di un Paese, nel caso il concorso sia nazionale, o internazionali. Per un produttore chiaramente il concorso è vissuto con aspettative e spesso con tensione, bisognerebbe sempre ricordare che, un po’ come avviene per gli Oscar, non sempre i premiati nei concorsi sono poi i preferiti dal mercato e dalla critica, tuttavia se si guarda i risultati su un periodo di tempo medio-lungo si può osservare come i migliori alla lunga emergano in modo abbastanza chiaro. Alcuni birrai o proprietari di birrifici non iscrivono le proprie birre ai concorsi perché non hanno fiducia nel lavoro dei giudici (è emblematico il caso dei produttori italiani che iscrivono le loro birre solo in concorsi internazionali e non a Birra dell’Anno perché ritengono non sia abbastanza “serio”, il che come ben sai non è vero), nelle regole dei concorsi, che possono piacere o non piacere ma sono sempre serie, rigorose e rispettate da tutti gli attori in gioco, oppure per scelta di marketing: per un birrificio che punta a una fascia di prezzo medio-alta o decisamente altra sarebbe controproducente mostrare al pubblico di non ricevere premi o riceverne pochi rispetto ad altri produttori più a buon mercato, decidendo di non partecipare, un po’ come l’Inghilterra nelle prime edizioni dei Mondiali di calcio, si sottolinea la propria alterità al gioco dei concorsi e si può anche sostenere con la parte più ingenua della clientela la superiorità dei propri prodotti, dal momento che manca l’episodio controfattuale, come si dice in filosofia della scienza.

Dopo la menzione alle Italian Grape Ale nel BJCP quale credi potrà essere il prossimo stile identificativo del nostro paese?

Sinceramente non ne ho idea, dal momento che la diffusione delle birre alle castagne, sbandierata come “tendenza italiana” una decina d’anni fa agli albori del movimento, sta subendo una decisa flessione che non mi addolora dal momento che si tratta di un ingrediente non facile da integrare in una birra e che di rado ha dato risultati davvero emozionanti o eccellenti. Inoltre, il concetto classico di stile è sempre più messo alla prova e reso obsoleto dall’esuberante creatività dei birrai di tutto il mondo: basti pensare ai confini ormai totalmente saltati tra Porter e Stout, all’interessante diffusione di birre luppolate in stile IPA ma brassate a bassa fermentazione, all’utilizzo, molto radicato in Italia, del dry hopping nelle Pils, all’uso di frutta e spezie in stili che originariamente non li prevedevano. Tutti fattori che mi fanno ritenere che sempre più parleremo di macrotipologie più che di stili in senso stretto.

Grazie Simonmattia e in bocca al lupo!