Il Birrificio Milano ha deciso di produrre dove una volta sorgeva la Caproni, mito dell’industria aeronautica nazionale. Con estrema cura dedicata al design e alla qualità, tra edifici sottratti all’incedere del tempo, tre soci s’impegnano credendo nell’artigianalità, vanto da non disperdere del capoluogo lombardo.
Scena prima: a un incrocio nel traffico congestionato di Milano, poco prima di mezzogiorno, un uomo alla guida della sua vecchia Bmw inveisce contro un altro su un Ciao restaurato ancora in circolazione: “Mi ha tagliato la strada. Stia più attento”. “Ma che dice. È lei che non sa guidare”. Scena seconda, i due si guardano meglio, riconoscono la voce pur a decenni di distanza dall’ultimo incontro e: “Ma sei tu, Marco?”. “Sì. E tu sei Fabrizio?!”. Le smorfie di fastidio si trasformano in sorrisi e la scena terza, dopo aver parcheggiato, si svolge all’interno di un bar. Davanti a un aperitivo gli ex compagni di liceo si raccontano gli anni trascorsi e la voglia di cambiar vita sulla soglia dei quarantacinque.
Il sogno nel cassetto
Le scene si svolgono nel 2012, Marco Cancelli in quel periodo si occupa di arredamento e design, mentre Fabrizio Pavani ha maturato esperienze nella ristorazione e nel beverage, è un esperto del bere miscelato e si diletta come appassionato homebrewer. A casa ha installato un impianto per la produzione di birra e pure Marco è un appassionato della bevanda, ma da consumatore. Di birre ne ha già assaggiate a decine, di ogni tipo, e gli è ben chiara la differenza abissale tra i prodotti industriali e le craft beer. Tanto da avere un sogno nel cassetto che vorrebbe tirar fuori per realizzarlo: aprire un birrificio artigianale. Una parola tira l’altra e il discorso s’incanala sul che fare da grandi. Insomma, proviamo? Fabrizio accetta la proposta e coinvolge un terzo amico, Roberto Camerone, al tempo impegnato negli allestimenti audio-video che non si fa pregare: è d’accordo anche lui.
L’istintiva laboriosità
Si tratta di mettersi a tavolino e studiare un progetto, con tanto di fattibilità per la quale sarebbero necessari finanziamenti. I tre si rivolgono a chi i soldi li ha, comprese le banche, e sono incoraggiati sì a produrre birra artigianale, ma all’estero. “Andate in Polonia, in Romania, insomma dove tutto costa meno, a partire dalla manodopera. L’Italia è meglio lasciarla. Non c’è posto per chi ha idee e voglia di lavorare”. Ma loro no. La loro birra artigianale dev’essere italiana, meglio ancora milanese. Del capoluogo lombardo i tre amici vogliono recuperare proprio l’istintiva laboriosità che sembra essersi dissolta e che invece dev’essere ancora lì, sotto la polvere di indifferenza e il diffuso senso rinunciatario che pare aver soffocato con il predominio della finanza ogni entusiasmo del fare. Decidono allora di pensarci da soli, di metter mano ai risparmi e di sostituire il denaro mancante con la forza delle loro braccia.
Archeologia industriale
La sede del Birrificio Milano la stabiliscono nel 2013 nel quartiere Taliedo, in via Zante, quasi all’angolo con via Mecenate, dove occupano alcuni edifici della scomparsa Caproni, passata dalla storia al mito dell’aeronautica italiana. I suggestivi muri esterni in mattoni rossi, un classico elemento dell’archeologia industriale, fanno da studiato contrasto agli interni rimessi sapientemente a nuovo. Vi dominano moderne scaffalature, grandi ripiani di legno che non sono altro che i tavoli da taglio recuperati da una fabbrica di tessuti dismessa e, vedere per credere e toccare per sentirne l’effetto straordinario, due container marini riverniciati d’arancio…
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