La birra artigianale ha la sua legge. È stato approvato in Senato, dopo il passaggio alla Camera, il collegato agricoltura, contenuto nel DDL S 1328-B (Disposizioni in materia di semplificazione, razionalizzazione, competitività per l’agroalimentare), che regola anche questa categoria con una definizione giuridica ad hoc.
Determinante è stata la spinta del mondo imprenditoriale, che ha visto Giuseppe Collesi, presidente della Fabbrica della Birra Tenute Collesi (Apecchio, PU), farsi promotore di un cambiamento per lungo tempo reclamato dal settore e accolto ora dal mondo politico. Proprio Collesi aveva contribuito a stendere e depositare in Commissione Agricoltura della Camera, lo scorso 13 gennaio, una proposta per modificare i criteri con cui regolamentare i birrifici artigianali. Con lui erano presenti i rappresentanti dell’Associazione Nazionale Città della Birra e del Comune di Apecchio oltre ad altri importanti produttori italiani, ricercatori universitari e operatori del settore.
Con l’articolo 35, la legge introduce in sostanza l’“identikit” della birra artigianale. Il testo definitivo recita: “Si definisce birra artigianale la birra prodotta da piccoli birrifici indipendenti e non sottoposta, durante la fase di produzione, a processi di pastorizzazione e microfiltrazione. Ai fini del presente comma si intende per piccolo birrificio indipendente, ai fini della norma del comma 1, un birrificio che sia legalmente ed economicamente indipendente da qualsiasi altro birrificio, che utilizzi impianti fisicamente distinti da quelli di qualsiasi altro birrificio, che non operi sotto licenza di utilizzo dei diritti di proprietà immateriale altrui e la cui produzione annua non superi 200.000 ettolitri, includendo in questo quantitativo le quantità di birra prodotte per conto di terzi”. Il testo licenziato dal Parlamento dimostra di aver accolto i punti delineati dagli operatori di settore con la proposta di Collesi.
La questione del processo produttivo
È qui che si gioca la differenza fondamentale: nella birra artigianale si prende in considerazione l’apporto umano, escludendo processi come la pastorizzazione e la microfiltrazione (caratteristici, invece, del processo industriale), che inevitabilmente altera il prodotto impoverendolo delle sue proprietà organolettiche e nutrizionali. «In questo senso – sottolinea Collesi – la qualifica di “birra artigianale” si prepara a diventare un brand sinonimo di qualità, in virtù non solo delle materie prime ma anche, e soprattutto, del metodo di lavorazione».
L’indicazione in etichetta
«Sarebbe stato folle – spiega ancora Collesi – continuare a regolamentarla secondo le disposizioni della Legge quadro 443/1985 per l’artigianato, che si limita a definire l’impresa artigiana secondo il criterio della dimensioni, trascurando appunto fattori essenziali come qualità degli ingredienti e metodi di lavorazione». Si trattava di una distorsione normativa, che ha creato confusione e penalizzato fortemente le aziende, anche d’eccellenza, quando non ha generato vere e proprie contraddizioni. Perchè, ad esempio, le categorie attribuibili per legge al prodotto-birra erano finora soltanto cinque, a seconda del grado plato: birra, birra analcolica, birra leggera (o light), birra doppio malto e birra speciale. Mentre nulla si è mai detto per altre denominazioni, commercialmente assai diffuse (tra cui “Lager”, “Ale” o “Stout”) che infatti dal punto di vista legislativo non hanno alcun valore.
La provenienza delle materie prime
La nuova legge non adotta criteri specifici in questo senso, ma accoglie la sollecitazione dell’On. Chiara Gagnarli a incentivare le produzioni italiane di colture come il luppolo. Un passaggio che riporta alla proposta di Collesi, dove si dichiarava prematuro attribuire la definizione di birra artigianale alla provenienza italiana di tutte le materie prime. «In primis, il luppolo, la cui produzione sul territorio nazionale è ancora troppo bassa per soddisfare infatti tutti i nostri birrifici» aveva evidenziato Giuseppe Collesi. Ad avvalorare questa tesi, durante l’audizione del 13 gennaio alla Commissione Agricoltura, erano stati anche Tommaso Ganino del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari dell’Università degli Studi di Parma ed Eugenio Pellicciari di Italian Hops Company, realtà nata da un progetto di ricerca della stessa università (e fra le prime, del settore, riconosciute dal MIPAAF).
La nuova legge dunque attribuisce al MIPAAF il compito di favorire, compatibilmente con la normativa europea, il miglioramento delle condizioni di produzione, trasformazione e commercializzazione nel settore del luppolo e dei suoi derivati.
Grande la soddisfazione di Giuseppe Collesi «per aver contribuito a raggiungere un traguardo tanto significativo per il settore, grazie alla sensibilità e all’impegno di alcuni parlamentari che hanno riconosciuto l’importanza del tema». «Non si tratta – continua – solo di una svolta storica per i produttori italiani: la norma è il frutto di una virtuosa partecipazione del nostro mondo imprenditoriale all’attività legislativa del Paese. Con l’unico obiettivo di contribuire allo sviluppo delle nostre eccellenze, meritevoli di una giusta tutela di mercato».