Gli imballaggi sostenibili sono un logico e necessario passo avanti per evitare sprechi di risorse. Il progettista di packaging è la figura chiave di questo processo e le sue competenze si ampliano fino a considerare aspetti che vanno ben oltre la preparazione tecnica e una buona conoscenza dei materiali. Alle famose 3 R (reduce, reuse, recycle) si sono aggiunti altri fattori da conoscere e ponderare per inviare importanti segnali all’intera filiera. Scegliere un determinato materiale significa influenzare sia la filiera a monte, sia la filiera a valle della progettazione (costruzione di linee di confezionamento, logistica, distribuzione, destino del contenitore dopo l’uso).
Davvero riciclabile
Un progettista non può mai essere certo che il “suo” imballaggio sia poi effettivamente riciclato. Molto dipende dal comportamento virtuoso del consumatore, ma ogni progetto di packaging può certamente limitare o favorire le possibilità di riciclo/recupero. Oggi, almeno in teoria, tutti gli imballaggi sono riciclabili al 100%; le nuove tecnologie permettono di separare con facilità i diversi componenti di un film poliaccoppiato o di una bottiglia ma, superato questo primo ostacolo, entrano in gioco altri fattori. Una volta entrato nella filiera del riciclo, il materiale è sottoposto a una sequenza di azioni, ciascuna considerabile come un calibro “passa non passa” per l’accesso alla fase successiva. Il progettista deve conoscere bene questi passaggi per poter dare la preferenza a materiali e componenti che migliorino la lavorabilità e l’efficienza in un impianto di riciclo. Il successivo e ultimo collo di bottiglia è la consegna del materiale al converter in condizioni tali da consentire un suo effettivo riutilizzo come materia prima. Per esempio chi utilizza plastica di riciclo non può accettare materiali contenenti additivi che favoriscono la biodegradabilità; allo stesso modo le vetrerie hanno il problema del frammischiamento del rottame di vetro bianco e colorato e chi si avvale dei maceri deve porre particolare attenzione alla compatibilità tra adesivi e inchiostri. Se il materiale ricevuto dal converter non rispetta le specifiche concordate, non è riutilizzato anche se è passato indenne attraverso tutte le precedenti fasi. La sua non accettazione comporta un evidente spreco di energie e di risorse da parte dell’intera filiera.
Bio non è sempre sinonimo di biodegradabile
I concetti di biopolimero e di biodegradabilità non sono sempre collegati tra loro. La biodegradabilità di una materia plastica è indipendente dalla fonte di materia prima. Un materiale ottenuto dal 100% di fonti rinnovabili può essere del tutto resistente alla biodegradazione; per contro una materia plastica derivata da petrolio può essere biodegradabile. Una miscela di polimeri ottenuti da petrolio e da fonti rinnovabili può, secondo i casi, dare origine a composti biodegradabili o non biodegradabili. Per avere certezza sulla biodegradabilità l’unico strumento valido è la certificazione secondo le norme EN 13432, ASTM 6400 o ISO 17088. Il compostaggio è un’altra modalità di fine vita per alcune categorie di prodotti, ma non bisogna dimenticare che anche i biopolimeri possono essere riciclati, recuperati come biomasse o inceneriti con recupero energetico.
Il nuovo approccio
Negli ultimi mesi si è aperto un acceso dibattito sui risultati dello studio “Sustainability of bio-based plastics: general comparative analysis and recommendations for improvement” di Clara-Rosalia Alvarez-Chaves, Sally Edwards, Rafael Moure-Eraso e Kenneth Geiser ricercatori della University of Massachusetts pubblicato all’inizio dell’anno su Journal of Cleaner Production 23 (2012, 47-56). I produttori di bioplastiche e le loro associazioni ne hanno aspramente contestato i risultati. È il primo studio sui biopolimeri che va oltre l’analisi dell’impatto ambientale, per avventurarsi in un terreno più ampio che comprende anche alcuni parametri “sociali”, come l’impatto della produzione sulla salute e la sicurezza dei lavoratori a questa addetti e sulla popolazione in generale. Lo studio considera bioplastiche i materiali dove il 100% del carbonio è ricavato da fonti agricole e forestali rinnovabili come amido, soia, proteine e cellulosa. I parametri di raffronto sono i dodici già definiti dal Sustainable Biomaterials Collaborative (SBC), un insieme di organizzazioni che premono per una larga diffusione delle plastiche biopolimeriche. I dodici criteri includono tra l’altro l’uso di: biomasse ottenute da organismi geneticamente modificati; pesticidi pericolosi per tutelare i raccolti; sostanze chimiche pericolose durante la produzione e la trasformazione dei polimeri; nanomateriali non testati. E ancora: i potenziali rischi per le maestranze impegnate in queste attività, le modalità di smaltimento quando l’imballaggio è a fine vita, i possibili impatti sulla catena alimentare, il consumo di acqua e il dispendio energetico. Lo studio concorda sul fatto che le bioplastiche riducono gli impatti sulla salute pubblica e sulla salute dei lavoratori, ma afferma anche che non tutte sono davvero sostenibili. I risultati sono sintetizzati in due grafici (Bioplastics Spectrums): il primo riguarda la salute dei lavoratori e il secondo l’impatto ambientale. I grafici sono divisi in tre zone rosso (evitare), arancio (considerare con dei limiti), verde (da preferire). Nel grafico su salute e sicurezza dei lavoratori PHAs (polidrossialcanoati), PLA (acido polilattico) e amido sono nella zona verde dello spettro; lo stesso dicasi per amido, PLA, uretani, PHAs proteine di soia e zeina nel grafico relativo all’impatto ambientale. Per contro i nano-biocomposti sono in entrambi i grafici nell’area rossa, perché le loro conseguenze sulla salute e sull’ambiente a lungo termine non sono note. La parte che ha destato le repliche più dure da parte delle aziende interessate è l’affermazione che nessuna bioplastica è del tutto sostenibile, ossia rispetta al 100% i 12 criteri considerati.
Le obiezioni
Le maggiori obiezioni dei produttori riguardano il non avere incluso nello studio materiali come il bioPE e il bioPET, per i quali si prevedono crescenti quote di mercato in un prossimo futuro. È stata molto criticata l’enfasi data al ricavare i biopolimeri da biomasse ottenute da OGM. Questa affermazione è vera per alcune regioni, come gli Stati Uniti che fanno largo uso di mais e soia OGM, ma il passaggio da colture “tradizionali” a colture GM non è stato espressamente voluto o guidato dall’industria della plastica e non è un prerequisito per produrre bioplastiche. Al contrario diversi produttori offrono materiali da biomasse GM free o stanno passando a colture OGM free. Lo IATP’s (Institute for Agriculture and Trade Policy) statunitense ha sviluppato il protocollo di certificazione Working Landscape Certification (WLC) per coltivazioni più sostenibili e per pratiche agricole non OGM. Quanto alla pericolosità delle produzioni, quella delle bioplastiche richiede la medesima energia, gli stessi additivi e gli stessi catalizzatori della produzione di plastiche derivate dal petrolio.
Maria Zemira Nociti