Intervista all’enologo

Il mio vino? È la storia che la vite racconta

Michelangelo Pasquero produce vino biologico seguendo un pensiero verace, sincero, semplice: allevare la vite, condurla, come si è sempre fatto, come i vecchi una volta facevano

Fu il biologico che, tra l’altro, le permise di conoscere sua moglie Annette Hilberg.
La conobbi lavorando insieme in campagna, attraverso amici in comune che lavoravano “il biologico”. Curioso, vero? Non tra gli ombrelloni della Riviera Adriatica, in un campo! Pochi anni più tardi, insieme, avremmo avviato un’azienda vitivinicola a conduzione biologica.

Come accadde questo?
Nel 1989 morì il nonno, poco dopo anche mio padre. Quella famiglia patriarcale, come tante d’altronde venne a mancare e con essa i presupposti per sostenere un’azienda diversificata. In famiglia si era sempre prodotto di tutto, il vino ne era una parte, perlopiù destinata al consumo domestico, alla condivisione con gli amici. C’erano poi le colture orticole, gli alberi da frutto, mais e altre colture erbacee; vacche e vitelli. Tutto questo richiedeva un impegno notevole, continuo in termini di forza lavoro che solo una famiglia allargata poteva garantire. Nel giro di qualche anno l’azienda si dedicò pressoché solo alla coltivazione della vite e alla produzione di vino. Il vino fu una scelta ma anche una casualità perché, quando mio padre venne a mancare, mi trovai in cantina, quattro botti colme di vino. Che farne? Mio nonno e mio padre avevano amici e clienti ai quali dare quel vino, persone che io non conoscevo, nomi che si erano in qualche modo perduti… Ora quel vino poteva essere venduto al classico negoziante che ti viene in cantina e ti dà un “tot” per ritirarlo, sempre poco però per campare… Insieme ad Annette decidemmo di puntare su produzioni di qualità. Annette, entusiasta dell’idea, fece una scelta coraggiosa: abbandonò l’idea del lavoro per il quale si era formata, quello d’infermiera professionale, per seguirmi in questo progetto.

In campo nessun problema, ma in cantina…
Conoscevo le mie vigne a memoria, sapevo come coltivarle, ma la trasformazione in cantina era per me un argomento nuovo. Furono preziosi, in tal senso, sia i contatti che tenni con la Scuola enologica di Alba sia con l’Università di Torino. Appresi molto e in breve tempo, mi confrontai parecchio anche con diversi produttori della zona. Cominciai anche a interessarmi a fondo d’invecchiamento: il nonno aveva sì delle botti di legno, ma non pensò mai d’invecchiarci il vino; il suo vino si consumava la primavera successiva… È stato forse il percorso più lungo, più complesso. Se metti il vino sbagliato in una barrique nuova, rovini il vino e sprechi la botte. Gli errori sono più evidenti quando il vino è naturale, cioè quando non lo  sottoponi ad alcuna “alchimia” in cantina. Se sbagli con la tostatura, con il legno, se sbagli con la fermentazione, la macerazione e poi non vuoi “ritoccare”, questi difetti vengono fuori! Io non credo tanto negli interventi successivi di tamponamento: se il vino parte bene va avanti bene, diversamente… È vero, puoi intervenire con la chimica, ma crei un equilibrio effimero che, prima o poi, mostra tutta la sua fallacità.

Assodate le conoscenze in cantina…?
No, non si è mai finito d’imparare! A ogni vendemmia c’è un accorgimento nuovo da mettere in pratica. È vero, utilizzo una regola d’invecchiamento, di tostatura, di selezione, ma qual è il materiale dal quale parti? È sempre uguale a se stesso? No… Ricordo il 2003, un’annata caldissima. Le regole del gioco erano cambiate, ci siamo trovati a vinificare uve diverse dal passato. Così abbiamo chiesto aiuto a vignaioli di altre zone più calde, abituati a quel genere di uve. Ricordo ancora questa condivisione con grande piacevolezza…

Uno scorcio delle barrique

Nel ‘94 nasce la prima vera annata dei vini Hilberg-Pasquero.
Un’annata introvabile. Che peccato non averne conservata nemmeno una bottiglia…! Ricordo, incollammo le etichette a mano, le scrivemmo una per una. Sono finite tutte sulle tavole degli amici… Un vino ancora senza grandi pretese, senza complessità, genuino, il cosiddetto “vino del contadino”. Un vino da consumarsi, niente più!

Nelle annate successive però si comincia a fare sul serio… Arrivano i primi riconoscimenti dalla critica.
Ringrazio spassionatamente chi ci ha premiato, perché lo ha fatto senza chiederci alcun corrispettivo economico. Questo, a parer mio, significa informare! Questo è stato il nostro vero trampolino di lancio, l’occasione per farci conoscere. Ma ciò che più mi appaga è vedere che la gente apprezza il tuo prodotto; ti senti riconosciuto per la passione che ci metti in quello che fai, e questo ti stimola a fare ancora meglio, a sperimentare. Così cresce la viticoltura, così cresce la qualità di un vino. La notorietà crea poi un interessante volano di conoscenze, di amicizie, che è l’aspetto più appagante di questo nostro lavoro. Quando fummo premiati per la prima volta con i tre bicchieri, conoscemmo in quel contesto, tra gli altri, una coppia di viticoltori, scoprimmo presto di avere parecchio in comune; con loro, nacque un’amicizia che tutt’ora continua… Negli anni numerose sono le amicizie che abbiamo creato e consolidato, molte sono oggi le persone che vengono a trovarci in campagna. Le visite danno gioia perché la campagna in fondo è solitudine, radicazione in un luogo…