Non serve inventare simboli quando è il luogo stesso a custodirli: a Costalunga (VR), tra le vigne del Soave, una cappella settecentesca accanto a una villa storica racconta la radice e l’identità della famiglia Tessari. Da quel piccolo edificio, che ha dato il nome all’azienda, prende avvio la storia de La Cappuccina.
L’acquisizione dei terreni da parte del bisnonno Lorenzo nel 1890 dà il via a un percorso agricolo che, generazione dopo generazione, porta alla costituzione dell’impresa così come la conosciamo oggi: una realtà di 43 ettari interamente coltivati con metodi biologici certificati, risultato di una scelta – intrapresa nel 1985 – che ha precorso tendenze e mercati. “Biologici da sempre, biodinamici nel cuore”: più che uno slogan, è il principio che orienta la filosofia aziendale, dalla gestione dei vigneti alla cantina, fino ai mercati internazionali. A raccogliere il testimone della quarta generazione sono stati i fratelli Tessari: Sisto, agronomo e responsabile delle relazioni estere, Pietro, enologo e custode delle scelte produttive, ed Elena, che segue marketing e controllo di gestione. Una distribuzione di competenze che ha unito memoria e innovazione, rendendo la struttura familiare snella e consolidando un modello basato su autonomia e standard qualitativi elevati.

Il lavoro in campo che precede il calice
La sostenibilità de La Cappuccina si costruisce filare dopo filare, con pratiche agronomiche che privilegiano la fertilità del suolo, la resilienza dell’ecosistema e aumentano la biodiversità. «Abbiamo innanzitutto attuato un paziente e costante lavoro di selezione in vigna, affiancato dall’acquisizione delle più avanzate tecnologie enologiche e dallo studio di soluzioni innovative per contenere al meglio e al massimo il nostro impatto ambientale» spiega Sisto Tessari. Gli ettari vitati sono gestiti con alte densità di impianto – dai 3.000 ai 5.500 ceppi per ettaro – e le rese sono contenute, al fine di concentrare sostanza e complessità nei grappoli. L’inerbimento tra i filari e il sovescio sono interventi costanti: nutrono i suoli – trattati con concimazioni organiche naturali –, incrementano la ritenzione idrica, favoriscono la presenza di importanti microrganismi e migliorano le condizioni di vita delle piante. Sono stati introdotti anche insetti utili – come api e coccinelle – per ridurre la pressione dei parassiti, oltre che impiantate varietà Piwi resistenti alle principali malattie della vite, al fine di limitare ulteriormente i trattamenti. La gestione agronomica privilegia sistemi di allevamento tradizionali e rinnovati: la pergola veronese convive con impianti a Guyot, selezionati in funzione dell’esposizione e delle caratteristiche pedologiche. La Garganega, dominante in vigneto insieme al Trebbiano di Soave, prospera sui basalti vulcanici e restituisce vini caratterizzati da mineralità e sapidità; a essi si affiancano sesti con Oseleta, Merlot, Sauvignon, Cabernet Sauvignon e Carmenère, scelti per esprimere sfumature diverse del territorio. In luogo dei trattamenti chimici, aboliti fin dal momento della conversione al biologico, la Cantina adotta zolfo e rame nelle pratiche di difesa consentite, condotte con rigore per minimizzare impatti su fauna e suolo. Non c’è ideologia, dunque, ma pragmatismo, per migliorare la salute delle piante, limitare gli input esterni e creare vini che riflettano il terroir. «Siamo per un’agricoltura in grado di donare positività e proteggere il nostro areale rendendolo vivo, come vivi sono i nostri vini», commenta Tessari.
Un marchio territoriale unico e riconoscibile
La produzione aziendale si attesta su una media di 350.000 bottiglie all’anno, con il Soave Doc che costituisce la quota principale – circa il 70% sul totale. Tra le etichette di spicco si distinguono i cru San Brizio Soave, Monte Stelle Soave e Arzimo Recioto di Soave, i quali, secondo Tessari, esprimono al meglio le sfumature del terroir vulcanico, «che conferisce a ogni singola bottiglia un marchio territoriale unico e riconoscibile». In cantina la linea produttiva unisce la tecnologia alle pratiche rispettose della materia prima: l’uso dell’anidride solforosa è controllato e limitato, la filtrazione privilegia materiali naturali e gli affinamenti si svolgono in spazi naturalmente freschi come la barricaia, posizionata tra le rocce vulcaniche. Le fasi lunari sono osservate nelle operazioni sensibili, come la messa in bottiglia, in una sintesi tra rigore scientifico e attenzione ancestrale. Oltre a compiere prove su varietà resistenti, negli ultimi anni i Tessari hanno sperimentato anche linee senza solfiti aggiunti, ottenendo vini eleganti e dinamici, caratterizzati da un equilibrio tra freschezza e struttura che li rende particolarmente adatti all’abbinamento gastronomico. «Il moderato contenuto alcolico accentua la loro versatilità a tavola – sottolinea Tessari –, mentre i cru più strutturati reggono l’affinamento e sviluppano note terziarie anche complesse».








