È dal 1984 che Cantina Andreola fa della viticoltura eroica il suo segno distintivo: posta a metà strada tra il mare e le montagne, in un fazzoletto di terra dalle favorevoli caratteristiche pedoclimatiche, l’azienda situata a Col San Martino, nel Comune di Farra di Soligo, è da sempre impegnata nella produzione pressoché esclusiva di Valdobbiadene Docg.
Fu Nazzareno Pola a fondarla, padre dell’attuale titolare Stefano, con l’intenzione di produrre vini con una propria etichetta a partire dai terreni della madre Orsola Andreola – a cui si deve il primo nome dell’azienda – sui quali all’epoca lavorava e di cui, fino all’84, aveva conferito le uve a cantine esterne. L’esperienza, tramandata di generazione in generazione, fin dalle origini è stata coniugata con le moderne tecnologie, dosando sapientemente passione e ragione, per racchiudere nel calice il carattere autentico del Valdobbiadene Docg ed esprimere uno stile di vino unico, caratterizzato dalla purezza del prodotto e dalla massima valorizzazione delle sue caratteristiche: cremosità al palato, intensi profumi fruttati ed eleganti al naso, armonia ed equilibrio.
«Siamo ubicati in un paesino di 3.000 abitanti nel cuore della zona storica di produzione del Valdobbiadene Docg, dove la viticoltura è definita eroica, per via della forte pendenza dei terreni, e dove nell’84 tutto è cominciato, a partire dall’ampliamento dell’originario corpo aziendale – ricorda l’enologo Mirco Balliana –. Da quel momento, anno dopo anno, sono state annesse nuove vigne e oggi siamo arrivati a lavorare direttamente circa 110 ettari, collocati in varie parti della Denominazione. Disponiamo di qualche giovane vigna ad Asolo e abbiamo un nuovo progetto nelle Dolomiti Bellunesi. Siamo in 35 dipendenti e produciamo circa 900.000 bottiglie».
Sanificazione controllata e saturazione con gas inerti
La linea di imbottigliamento è stata inizialmente allestita nell’84, poi ampliata nel 2010-2011 con l’addizione di un ulteriore segmento per il confezionamento; quando è avvenuto il trasferimento nel nuovo stabile, nel 2013, sono state recuperate le macchine più moderne e sostituite quelle più piccole e obsolete, aggiungendo l’inscatolatrice, e nell’estate del 2021 si è proceduto a inserire un robot pallettizzatore. Oggi, in definitiva, la linea risulta composta da una serie di macchine di età diverse: quelle più nuove e adeguatamente dimensionate, recuperate dalla precedente linea di imbottigliamento, e quelle aggiunte in un secondo momento, in concomitanza con il trasferimento dalla sede di via Giussin alla sede di via Cavre.
Partendo dal depaletizzatore TMG, si passa a sciacquatrice Costec, riempitrice isobarica BC Cannius, tappatore Arol, gabbiettatrice Robino&Galandrino, tunnel di riscaldamento I-Find, lava-asciugatrice Stentz, capsulatori Robino&Galandrino, etichettatrice Makro Labelling, inscatolatrice Mondo&Scaglione e robot pallettizzatore Mondo&Scaglione, tutte dimensionate per viaggiare in un range che va dalle 2.000 alle 3.000 bottiglie all’ora.
«Per la tipologia di vini che produciamo, sulla linea abbiamo dovuto optare per specifiche tecnologie che permettessero l’imbottigliamento in pressione del vino spumante – spiega Balliana –, tenendo sempre maniacalmente sotto controllo i processi di sanificazione degli impianti attraverso vaporizzazione e lavaggi con detergenti; una delle nostre necessità, inoltre, è quella di saturare le parti interessate dal passaggio del vino con gas inerti, per evitare contatto con l’aria. Le bollicine richiedono, infatti, molte più attenzioni rispetto all’imbottigliamento di vini fermi: questo è di per sé un processo molto complesso e, talvolta, anche pericoloso, se si considera che si lavora in sovrapressione. Basti pensare alle basse temperature da dover gestire per evitare di perdere l’anidride carbonica immagazzinata durante la presa di spuma, ma, al contempo, la pericolosità di favorire la dissoluzione di ossigeno e il bisogno di saturare completamente l’impianto con gas inerti. Lo spumante, inoltre, si trova in sovrapressione a circa 5,5 bar e per evitare fenomeni di schiumature va messo in bottiglia a egual pressione: tubazioni e impianti devono essere adeguatamente dimensionati e collaudati per supportare tale pressione. L’impiantistica in generale, comunque, ha fatto enormi progressi e dopo molti anni di esperienza possiamo dire che per noi, questa, è ormai un’operazione di routine».
Fondamentale rimuovere l’ossigeno e pressurizzare
Addentriamoci, dunque, nel viaggio dei contenitori in vetro sulla linea. Ogni bottiglia, dopo essere stata sospinta dal depallettizzatore sul nastro trasportatore, entra in una macchina che, capovolgendola su sé stessa, le spruzza acqua microfiltrata sterile all’interno, in modo da lavarla completamente e rimuovere eventuali impurità. Appositi ugelli disposti nella parte terminale dello stesso macchinario insufflano azoto per favorire, da una parte, l’asciugatura della bottiglia e, dall’altra, l’eliminazione di ossigeno, gas più pesante dell’aria che tende a stratificarsi verso il fondo. Il contenitore in vetro prosegue quindi il suo viaggio verso la riempitrice, che lo spinge tramite un pistoncino all’ugello di riempimento e lo mantiene in battuta, facendolo aderire perfettamente a una guarnizione che ne garantisce la pressurizzazione.
«Se così non fosse – dichiara l’enologo – lo spumante che si trova all’interno della campana di riempimento passerebbe da una sovrapressione di circa 5,5 bar a quella atmosferica e genererebbe schiuma, che, oltre a far perdere tutte le caratteristiche di finezza, cremosità e croccantezza che abbiamo precedentemente sviluppato attraverso l’affinamento del vino spumante, impedirebbe il corretto riempimento». Peculiarità di questa macchina è la possibilità di ultimare il lavoro di rimozione pressoché totale di tutta l’aria presente all’interno della bottiglia attraverso un processo di pre-evacuazione, saturando la bottiglia di gas inerte e pressurizzandola alla stregua del vino in campana, così da evitare il più possibile il contatto del prodotto con l’ossigeno, responsabile dell’invecchiamento precoce. La macchina procede con la rotazione della campana e le bottiglie, man mano che entrano nel giro di giostra, vengono spinte dai pistoncini verso l’alto, per rimuovere l’aria e procedere con la pressurizzazione; una volta in pressione, lo spumante è lasciato fluire attraverso un ugello nel vetro, la pressione si abbassa e i contenitori sono reimmessi sul nastro trasportatore. Le bottiglie devono poi essere convogliate dalla riempitrice al tappatore nel più breve tempo possibile.
«Per scongiurare le perdite di bollicine e CO2, durante questa fase critica del processo lo spumante è imbottigliato molto freddo (al di sotto di 0 °C) – precisa Balliana – e questo per un semplice principio fisico: più freddo è un liquido e più esso tende a trattenere i gas disciolti presenti al suo interno – senza ghiacciare, ovviamente, grazie alla presenza dell’alcool, che ci consente di spingerci fino a -3 °C circa».
Tappatura, vestizione e confezionamento ad hoc
Inizialmente di forma cilindrica, i tappi di sughero vengono compressi attraverso due ganasce presenti all’interno del tappatore, in modo da avere un diametro inseribile nel collo della bottiglia; successivamente un perno regolabile spinge ogni tappo effettuando l’inserimento fino al punto desiderato e ultimando la tappatura sulla bottiglia, posta inferiormente e perfettamente aderente al blocco. Le ganasce, a questo punto, rilasciano il tappo che, per la metà inferiore circa, ritornando in sagoma, trova il collo della bottiglia e va a costituire la tenuta, mentre per la parte superiore resta libero di tornare alle dimensioni originarie: in questo modo assume la forma di fungo. Fuoriuscita dal tappatore, ciascuna bottiglia si dirige verso la gabbiettatrice, grazie alla quale viene posizionata e legata al collo della bottiglia una gabbietta metallica sopra alla chiusura.
«Questo è fondamentale per avere la certezza che il tappo, anche a seguito di sbalzi di temperatura e, di conseguenza, di pressioni interne, sia fisicamente impossibilitato a uscire», specifica l’enologo. A questo punto la bottiglia entra nel tunnel riscaldante che, in modo graduale, incrementa la temperatura da quella di imbottigliamento a quella che permette l’etichettatura, senza che si abbia la formazione di condensa. La successiva macchina, attraverso spazzole apposite, si occupa di lavare l’esterno della bottiglia e di asciugarla completamente con più getti d’aria. La parte terminale della linea è dedicata alla vestizione delle bottiglie e al confezionamento: «Abbiamo mantenuto volutamente in sequenza il vecchio capsulatore, impiegato esclusivamente per le capsule in PVC termoretraibili, e quello nuovo, utilizzato invece per la piega e messa in posa delle capsule normali. La macchina successiva si occupa di apporre il collare, per fissare le capsule, fronte-etichetta, retro-etichetta e, opzionalmente, i contrassegni distintivi della nostra denominazione, a seconda della tipologia».
Le bottiglie vengono a questo punto accumulate all’ingresso dell’inscatolatrice, che le introduce in gruppi di sei alla volta e le inserisce nelle scatole precedentemente formate grazie a lamine che ne comportano la piegatura e la fissazione con colla a caldo; una volta immesso l’alveare, che protegge le bottiglie dagli urti, la scatola viene chiusa. Esteriormente è stampata e apposta un’etichetta che riporta la tipologia prodotto e un determinato codice a barre, utile al gestionale di magazzino, prima di convogliare le scatole verso il robot pallettizzatore. Quest’ultimo, grazie a un braccio robotizzato, afferra le scatole da sei bottiglie a gruppi di tre alla volta e le posiziona su un pallet fino a comporlo progressivamente, dimensionandolo a seconda delle necessità; una volta ultimato, il pallet viene fatto roteare su sé stesso al fine di essere avvolto, grazie a un’apposita macchina, con nastro estensibile, responsabile della protezione delle scatole. Viene quindi spedito a magazzino da un operatore munito di transpallet.