Salvatore Murana: la normalità dei miracoli

Salvatore Murana, viticoltore a Pantelleria, ti guarda dritto negli occhi: sul viso i segni del vento, che sull’isola non cessa di sferzare e di modellare il profilo della roccia affilata, verticale, fiera e temeraria, senza soluzione di continuità con il mare.

Salvatore Murana

Il fuoco è la storia di Pantelleria

Un tutt’uno, in un piccolo territorio di origine vulcanica che nasce da un rigurgito di lava e di ossidiana, più vicino all’Africa di quanto lo sia al nostro Paese.

Sono circa 70 i chilometri che separano Pantelleria dalla Tunisia, e 110 dalla Sicilia: poco più di 80 chilometri quadrati dominati dalla Montagna Grande. È ciò che rimane di un antico vulcano, oggi spento, attorno al quale una miriade di piccoli sbocchi si sono sviluppati: un’altitudine di 836 metri sul livello del mare. Da lì si domina l’isola, consentendo allo sguardo di raggiungere Africa e Italia nell’infinità dell’orizzonte. L’origine del nome Pantelleria sembra essere latina, da panthera, ovvero tenda: potrebbe essere il profilo delle colline intorno alla Montagna Grande, che forma una sorta di rete per avvolgere e catturare gli uccelli che attraversano in volo l’isola lungo le rotte migratorie.

Il fuoco è la storia di Pantelleria, perché figlia di un magma incandescente: lava sommersa, dicono ad oltre 2000 metri di profondità, uscita allo scoperto per originare l’isola: di età recente per i geologi, datata solo 200.000 anni fa. Il senso della fatica è anche nella pronuncia di quelle contrade perse tra costa ed entroterra, che si riproducono con suoni dalla pronuncia araba, con la lettera “K” che si fa viva di continuo: Kamma è una contrada sull’isola, dove Salvatore alleva il suo zibibbo da sei generazioni. Nell’impronunciabilità di parole come Bukkuram, Kuttinar, Farkhikhalà ci sono la difficoltà e l’introspezione di una natura dura e scontrosa fatta anche di pietra: quella dei dammusi, le abitazioni dell’isola a pianta quadrangolare intagliate dalla lava che, con il loro tetto a cupola, sembrano invocare dal cielo l’acqua piovana per raccoglierla in piccole cisterne. Una benedizione rara e vitale. Nella viticoltura pantesca l’acqua è santa, in un’accezione laica ma contaminata dal rapporto costante tra sacro e profano, marchio di fabbrica dell’isola. I giardini panteschi, i muretti a secco, le piante di agrumi testimoniano una sfida perenne per la sopravvivenza.

E nonostante i sassi, la lava e le rocce, Pantelleria è verde: mirto, rosmarino, aglio selvatico e origano, cespugli di ginepro e di erica, corbezzolo e ginestra tra lecci, pini marittimi e pini d’Aleppo, espressioni di una flora spontanea ricchissima che ha fatto della biodiversità il suo mantra. L’ineffabile eloquenza nel vento, così scriveva Shelley: a Pantelleria i venti sferzano di continuo e mormorano canti e preghiere quando le raffiche raggiungono velocità sorprendenti.

Il vento taglia, secco, affilato anche con il caldo: Maestrale, Scirocco, Libeccio e Grecale si intrecciano di continuo. Ci si convive, adattandosi a una natura poco clemente ma che gli abitanti (e anche i turisti) amano da sempre. Una dimensione aero-dinamica, dove, esattamente come nell’occhio del ciclone, tutto è equilibrio e integrità.

La vite è lì, radici piantate in piccole buche della terra, basse ma con la schiena dritta: striscianti non per servitù ma per sopravvivenza, pronte a ricevere il vento e il sale del mare senza mai piegarsi. Dignità, nobiltà e fierezza, virtù che le viti nane racchiudono in sé, dotandosi di pregio, di fama e di rispetto nel mondo. Come piccoli bonsai sono miniature di rara bellezza: l’innocenza della vite, circondata dai profumi legati non solo alla macchia mediterranea e alle uve zibibbo ma anche al cappero, creatura multiforme che è un fiore, espressione di vita e di natura conquistata. Gli aromi sono quelli del sale e il gusto viene a patti con il vento e con l’acqua: infinito, a tratti bruciante, sa di roccia. E quel colore verde militare in realtà ha il fascino straordinario di una fiaba antichissima, che non ha bisogno di belletti ma che si ripropone con la sola autenticità che conosce, quella della conquista. Il cappero non è mai gregario alla vite, e da buon soldato sta in trincea, non solo in autunno come quelli di Ungaretti, ma tutto l’anno.

A Pantelleria la vite sembra non arrendersi mai: Paolo Repossi nel suo libro “Il rito del filare” parla della forza della vite, una pianta che non si fa intimorire da niente, che si intestardisce ad ogni ripresa, che lavora per sottrazione, accettando la costante e immancabile riduzione. A Pantelleria tutto questo sembra essere ancora più vero e credibile, in una sorta di metafora dell’esistenza: nonostante l’ambiente ostile, le temperature africane e la pressoché assenza di acqua, la vite sembra non perdere mai nulla del suo entusiasmo iniziale. E il viticoltore, perfettamente integrato in questa dimensione, agisce in comunione con gli elementi della natura e ne accetta, nel significato più alto e mistico della resilienza, la volontà.

Un patto di sangue e di rispetto con l’isola

Salvatore Murana non ha età: tra lui e Pantelleria esiste un patto di sangue e di rispetto, non solo legato alla sua nascita e alle sue origini, ma alla ritualità dei suoi gesti, all’amore che prova per le sue viti.

È un uomo forte, che lavora la terra e raccoglie l’uva con delicatezza, con mani e fare che hanno tutta l’ostinazione e la caparbietà di un fanciullo. L’isola conta poco più di 300 ettari vitati nel suo complesso, per circa 8000 ettolitri di vino, tanto raro quanto prezioso: l’allevamento della vite ad alberello di Pantelleria è dal 2014 iscritta nel Registro Unesco dei Beni Materiali dell’Umanità. Si parla di vino in un’isola dove in realtà pochi sono i pescatori: il mare aperto, le correnti fortissime, le acque profonde in mezzo al Mediterraneo, le coste fatte di roccia, di lava e di ossidiana, talmente tagliente da essere infida, rendono l’ambiente “mare” pericoloso e a volte inaccessibile. Va accettato, come tutto il resto di Pantelleria: o la ami o la odi, nessuna via di mezzo.

Salvatore Murana non conosce zone grigie: il suo verbo è quello di un oracolo, e ogni volta che proferisce parola verrebbe da prendere appunti. È un orante in preghiera, ispirato mentre benedice quasi incomprensibilmente una natura che fa del suo lavoro un sacrificio.  I suoi vini nascono dal legame unico che ha con la terra, espressione di una forza che sembra avere radici antichissime: ama lo zibibbo (o moscato di Alessandria) in un rapporto mistico e ne parla sempre ispirato da qualcosa di trascende la realtà. Eroismo, coraggio ed estremità: Salvatore è piegato sulle sue ginocchia quando lavora la vite, e mentre sfiora la pianta è chino sulla terra, in preghiera. Le sue non sono storie di vita o di vendemmia: assomigliano alle parabole.

Mueggen e Martingana sono le zone dell’isola dove la sua produzione è più concentrata: la sua casa ha l’accoglienza dei profumi dei pomodorini essiccati, dei fiori di zucca ripieni, degli acini di zibibbo appassiti. Intorno al giardino, fiori di gelsomino, fichi d’India, piante da frutto, basilico e pomodori: una vegetazione che invoca la benevolenza della natura e che nel verde clorofilla canta la speranza della sopravvivenza. Salvatore ti accoglie come se fossi di famiglia, perché in chi ama il vino riconosce una parte di sé. Nei suoi vini la dolcezza e la sapidità si ripropongono costantemente, come in un inseguimento tra ragazzini esuberanti: zucchero e sale, that’s life, metafora della vita.

I vini di Salvatore

La gioventù di Salvatore è nei suoi vini e nel suo cuore generoso. Produce passiti dolci, ma vinifica anche lo zibibbo come bianco secco (cappero sotto sale che si è fatto liquido) e recentemente ha realizzato un Metodo Classico che vede il miracolo della trasformazione di un’uva dolcissima e aromatica come lo zibibbo in un vino verticale, sapido e freschissimo.  Questo è quanto inciso sull’etichetta del suo Creato, il passito che ha dedicato alla madre: “Questo vino racchiude in sé, facendo sprigionare all’olfatto e al gusto, il sapore dei vulcani, le acque degli Dei, per poter raggiungere l’infinito. Non può che essere il nettare di un Dio che conosce le esatte mescolanze e fa sentire agli uomini quello che la mente non può riuscire a pensare. Distribuisce piacere, fa misurare la propria profondità”.  

I vini di Salvatore Murana nascono dal legame unico che hanno con la terra

Il Creato è un vino che non ha fretta: degustiamo insieme la vendemmia 1983, che ha tutta l’energia di quest’isola. Un colore ambrato scuro, la sublimazione del Passito di Pantelleria. Sale della roccia, il profumo della pietra lavica riscaldata dal sole, il sapore del cappero, caramello, i fiori appassiti, arancia candita, chinotto, zenzero, erbe officinali, incenso, smalto, un’acidità sferzante che bilancia perfettamente il residuo zuccherino. Commovente nella sua essenza, emozionante nel suo slancio, inafferrabile tra profondità e verticalità: per capirlo veramente ci vorrebbero anni. Salvatore lo accarezza, cullandolo con lo sguardo e con le sue parole, acceso d’amore per quello che racconta.

Nella degustazione a Pantelleria entra in gioco il senso dell’udito: perché è impossibile assaporare un calice senza sentire il fragore delle onde, il tintinnio delle piante mosse dal vento, il canto delle rocce: il vino è danza, in un passo lento e sensuale. La viticoltura non può che essere ribelle, coraggiosa e impavida, fragorosa come sanno esserlo le onde del mare e le pause e i silenzi nei racconti di Salvatore, dirompente nelle sensazioni gustative, calda come i muri di pietra nera scaldati al sole. I profumi della vinificazione dello zibibbo hanno un potere seduttivo straordinario, generati da una terra feconda nonostante il vulcano, nonostante la siccità, nonostante il mare, nonostante il vento: uno scrigno che sprigiona vita in un ambiente inadatto e ostile.

La cucina accompagna i calici e l’origano, il cappero, le erbe aromatiche come il basilico e il rosmarino, e l’olio dell’isola sono la metrica di ogni pietanza. Sul pesce ma anche sul coniglio, cucinato alla pantesca con i peperoni. Il couscous non dimentica la tradizione araba, e le verdure con i pomodori sempre presenti sono croccanti, vitali, energetiche. I vini di Salvatore Murana, che negli anni ‘70 fu tra i primi a parlare di Pantelleria e a diffondere i propri vini oltre i confini dell’isola, esportano in realtà un’idea: la cultura e l’amore per il territorio. Costi quello che costi, fatica inclusa: emozioni e sentimenti sono priceless.