“Bere con piacere”: è l’idea alla base del lavoro di Toni e Hannes Rottensteiner, padre e figlio, entrambi enologi, da sempre produttori di vino nella Cantina di famiglia che, attraverso i decenni e la storia, è divenuta un punto di riferimento importante per tante piccole realtà vinicole a conduzione familiare nell’area di Bolzano e provincia.
La famiglia Rottensteiner, infatti, rappresenta un caposaldo della viticoltura altoatesina ed essendo legata da centinaia di anni alla terra e alla vigna, esprime nei vini le forti radici con il territorio e le sue tradizioni: un’eredità tramandata, dai Rottensteiner, di generazione in generazione. I vigneti di proprietà si estendono su circa dodici ettari e la loro produzione è integrata con le uve di 45 masi della zona: conferitori di aree vinicole importanti come il cuneo verde di Gries (grüner Keil) per il Lagrein o Appiano per il Sauvignon e il Pinot Nero (Nussbaumerhof), così come proprietari di vigneti particolarmente adatti alla coltivazione di alcune varietà per le selezioni, come il Tollhof destinato al Pinot Bianco Carnol. La scelta – fin dalla fondazione della Cantina nel 1956 ad opera del padre di Toni, Hans Rottensteiner – è stata quella di concentrarsi sulla tipicità, puntando alla miglior espressione delle varietà locali: il Lagrein e il Santa Maddalena. «Il vino gioca un ruolo fondamentale nella nostra vita – commentano Toni e Hannes, ma per entrambi la famiglia è sempre stata molto importante e, ovviamente, lo è tutt’oggi».
Quali compiti e ruoli hanno caratterizzato la vostra attività in azienda negli anni?
«Entrambi abbiamo iniziato a lavorare in qualità di enologi affiancando i nostri padri. Toni, a partire dagli anni 80, si è occupato di tutti gli aspetti dell’azienda, sia a livello tecnico che commerciale, mentre io, Hannes, sono subentrato nel 2001, assistendolo su tutti i fronti. Più tardi, con l’ingresso in azienda di mia moglie Judith, entrambi ci siamo dedicati maggiormente alle questioni tecniche, mentre Judith, tuttora, si occupa dell’ambito commerciale. Le nostre mansioni principali riguardano tutti gli aspetti e le attività che consentono la coltivazione dell’uva, la sua trasformazione in vino e la messa in bottiglia finale. Ci confrontiamo regolarmente con i conferitori, quindi definiamo progetti comuni, facciamo consulenza relativamente a nuovi progetti e seguiamo al meglio l’andamento dell’annata agricola. Organizziamo, poi, la vendemmia, le fermentazioni, le stabilizzazioni e le degustazioni, per arrivare alla creazione delle singole partite che verranno, infine, imbottigliate. Diventa sempre più importante, inoltre, la comunicazione, portata avanti anche direttamente dall’enologo, così come durante eventi quali fiere, degustazioni o cene in presenza del produttore».
Le sfide che per voi sono state più appassionanti in questi anni?
«Dal mio punto di vista – a rispondere è Toni – la sfida maggiore è coincisa sicuramente con il momento in cui è avvenuto il nostro passaggio da produttori di vino sfuso ad azienda conosciuta per bottiglie di alta qualità, ma anche il passaggio dal mercato prevalentemente svizzero a quello italiano non è stato da meno, così come l’introduzione di tante varietà in prevalenza bianche, mentre prima producevamo quasi solo vini a base di Schiava. Il periodo più critico è stato il crollo del mercato svizzero nei primi anni 80, seguito dallo scandalo del metanolo. In quegli anni siamo stati costretti ad aprire nuovi mercati e sarebbe stato impossibile farlo coltivando unicamente Schiava; è per questo che abbiamo puntato di più sulle varietà all’epoca richieste dal mercato, soprattutto italiano. Pian piano abbiamo imparato a lavorare su questa piazza e se ora l’Alto Adige è conosciuto soprattutto per i vini bianchi, ecco… siamo riusciti nel nostro intento». Per Hannes è più difficile rispondere: «Negli ultimi vent’anni l’andamento aziendale è stato di certo molto più lineare rispetto al ventennio precedente, perciò non ricordo un momento particolarmente difficile o sfidante. Ogni anno è per me una nuova sfida appassionante, con situazioni sempre nuove da affrontare e una costante ricerca di miglioramento».
Quali sono i vostri punti di forza?
«Sappiamo fare squadra. Certo, abbiamo la nostra idea ben definita di “vino buono”, ma da soli sarebbe impossibile trasformare l’idea in realtà: per concretizzarla serve l’aiuto di tantissime persone, iniziando dai produttori di uva nostri conferitori, passando dal personale della Cantina e arrivando alla rete vendita, che deve funzionare al meglio per poter finanziare tutti gli step precedenti. In cantina ci affiancano un’assistente enologo e tre operai: uno specializzato nelle operazioni enologiche, un secondo responsabile dell’imbottigliamento e il terzo della logistica. Quando imbottigliamo, ad esempio, tutti collaboriamo, perché la nostra filosofia di lavoro è che quando c’è qualcosa di urgente da sbrigare bisogna rimboccarsi le maniche e agire, anche se si tratta di un’operazione che non ci piace particolarmente: il lavoro si porta avanti in modo serio, il che non significa che non si possa anche ridere e scherzare. Il vino, d’altra parte, è un prodotto realizzato per condividere momenti piacevoli in compagnia, quindi perché non produrlo cercando di divertirsi? Entrambi siamo molto socievoli, pazienti e calmi, anche se questa nostra attitudine non ci risparmia qualche discussione accesa, ogni tanto; anche l’umiltà ci accomuna, fino al punto di riconoscere, spesso, la qualità della concorrenza ancor prima della nostra. Mentre mio padre è più pratico e abituato ad agire e a decidere velocemente – specifica Hannes – io sono più perfezionista e tendo a cercare di definire ogni dettaglio prima di compiere qualunque scelta».
Come identificate un vino di qualità e quali sono le tecniche che adottate in cantina?
«Diamo molto peso all’eleganza dei nostri vini, alla loro bevibilità, all’armonia che infondono in bocca. La qualità è difficile da quantificare e, soprattutto, deriva innanzitutto da una buona gestione del vigneto: in cantina, infatti, si può al limite definire la qualità che è già presente nell’uva e, anche se la tecnologia aiuta, serve in primis una materia prima ineccepibile. Un vino, poi, deve piacere, quindi vini anche molto complessi, ma di cattiva beva, o vini troppo impegnativi, a parer nostro hanno poco senso. Potremmo dire, sintetizzando, che la qualità di un vino è il risultato dell’equilibrio tra diversi parametri e che un prodotto valido si riconosce soprattutto per la sua mineralità e persistenza, due caratteristiche difficilmente influenzabili in cantina. Nei nostri vini si sente il porfido – il nostro suolo prevalente – con la sua mineralità salina, la quale ci aiuta moltissimo nel raggiungimento di una spiccata bevibilità. Un buon vino deve essere elegante e beverino, ma anche sincero e autentico, in linea con i valori portati avanti in azienda e nella vita: insieme alla reminiscenza delle origini e al rispetto delle tradizioni, queste sono le pietre miliari del nostro lavoro quotidiano, finalizzato a creare vini dal carattere unico, inconfondibilmente legati alla tipicità e, per questo, principalmente monovarietali».
Da enologi, come pensate si sia modificata la vostra figura professionale nel tempo?
«Anni fa l’enologo era la figura che lavorava all’interno dell’azienda e che difficilmente usciva dalle cantine: con l’uva che arrivava egli produceva il vino e lo vendeva a chi era interessato ad acquistarlo. Oggi questo professionista si è trasformato, divenendo molto più versatile di un tempo, e i suoi compiti iniziano già in vigna, dove devono essere definiti gli standard per il raggiungimento dei target aziendali e dove deve essere controllata la qualità dell’uva già in fase di produzione. L’enologo è ormai divenuto una figura strategica anche nell’ambito delle vendite e della commercializzazione: gli è richiesto non solo di mettere la faccia in un prodotto e di essere bravo a realizzarlo, ma anche di comunicarlo. Relativamente, invece, al ruolo di imprenditore vitivinicolo, crediamo sia variato soprattutto il range d’azione rispetto al passato: il mondo diventa sempre più piccolo e i mercati più diversificati, quindi si è costretti a parlare più lingue e a spostarsi di più. Per entrambe le categorie, in ogni caso, è cresciuto molto l’interesse dei consumatori: non basta più avere buon vino da vendere, perché la gente vuole vedere di persona l’azienda, degustarne i vini e incontrare chi li produce».
La vostra maggior soddisfazione e un’ambizione per il futuro?
«Osservando i numeri di vendita nelle singole provincie italiane e il nostro andamento sui vari mercati export – ultimamente, soprattutto in USA – non possiamo che essere contenti e appagati! La maggiore soddisfazione, in ogni caso, è il sorriso delle persone dopo aver assaggiato uno dei nostri vini. Nel lavoro abbiamo sempre messo la faccia, rispettando tutti i nostri clienti – a prescindere dalla loro capacità di acquisto – e cercando di non produrre vini anonimi, ma che fossero lo specchio dei nostri valori. Per il futuro stiamo pianificando l’ottenimento della certificazione SQNPI, oltre, ovviamente, a crescere ancora in qualità. Diversificheremo maggiormente i mercati –attualmente siamo presenti per il 70% in Italia – e lavoreremo per migliorare anche la nostra immagine aziendale; proporremo, infine, qualche nuova referenza, che potrebbe essere una Riserva di Pinot Bianco o un Lagrein superiore al Select. Il nostro grande progetto personale, comunque, è e sarà sempre la famiglia: siamo la seconda e la terza generazione in cantina e il sogno è che, dopo di noi, possa essercene una quarta, a cui ci sentiamo in dovere di assicurare la possibilità di una vita bella e proficua».