The Spiritual Machine: cerca il tuo spirito!

Matteo Dispenza, Elisa Cravero e Matteo Fornaca, co-founders di The Spiritual Machine

Credere nelle leggende o diventarne parte? Cullarsi nei sogni o aprire finalmente gli occhi? È con l’obiettivo di dare risposta a queste domande che ha avuto origine The Spiritual Machine, startup dal Dna torinese nata dall’intuizione di Matteo Dispenza e Matteo Fornaca, cui si è successivamente unita Elisa Cravero. Perché, secondo il team della startup, puoi raggiungere questi obiettivi soltanto cercando – e trovando – il tuo “spirito”. Come?

Galeotto fu il vermouth

Matteo e Matteo sono ex compagni di Università: facoltà diverse ma stesso ateneo, a Torino. Già in quella fase della loro vita estrinsecano la loro vivacità intellettuale, facendosi promotori di diverse attività culturali per gli studenti. Poi le loro strade si allontanano, con Matteo Fornaca che per il suo lavoro si divide tra Strasburgo e il mondo, occupandosi di diritti umani e cooperazione internazionale, e Matteo Dispenza che si concentra sull’ICT, sempre con una declinazione sul sociale. Poi la svolta, che porta i due amici a creare nuovamente qualcosa insieme. Fornaca decide sia giunta l’ora di mettere radici, viaggiare un po’ meno e pensare a qualcosa di nuovo nella sua regione di origine, il Piemonte. «Io e l’altro Matteo – spiega – decidemmo di fondare una società focalizzata sul miglioramento della fruizione turistica del nostro territorio attraverso la tecnologia. Questo ci portò a conoscere meglio le eccellenze enogastronomiche piemontesi e a decidere di non volerci concentrare su quelle più rinomate, vino e tartufo, ma su quelle meno in voga, tra cui il vermouth. Questo parallelamente ci fece scoprire l’esistenza di un grande interesse nei confronti delle bevande alcoliche, da parte di una miriade di soggetti diversi. Tale interesse ha decretato poi il successo delle attività di formazione online portate avanti da The Spiritual Machine durante la pandemia: una serie di webinar sui metodi produttivi dei distillati più importanti al mondo, seguiti da centinaia di persone. Decidemmo anche di produrre un vermouth nostro, andando a recuperare la ricetta di un marchio storico piemontese, e proprio in questo frangente ci scontrammo con le innumerevoli difficoltà legate all’utilizzo del processo tradizionale nella produzione di spirit. Nacque così l’idea di escogitare metodi alternativi per produrli in maniera più semplice e rapida, e di farlo con una startup, che decidemmo di chiamare The Spiritual Machine».

Lungo questo percorso, i due Matteo si imbattono in Elisa Cravero. «La classica persona nel posto giusto al momento giusto. Eravamo alla ricerca di qualcuno sufficientemente scriteriato da poter lavorare con noi e darci più concretezza, che facesse la cosiddetta messa a terra. Elisa, che arrivava da esperienze professionali di gestione aziendale, decise di salire a bordo».

Oggi, all’interno di The Spiritual Machine Matteo Fornaca si occupa di espansione e fundraising, Matteo Dispenza di digital e marketing ed Elisa Cravero, CEO della startup, si occupa del comparto commerciale e delle vendite.

Dai kit alle ricette personalizzate

«Siamo partiti con un modello di business completamente diverso da quello attuale – spiega Fornaca -. Inizialmente abbiamo sviluppato dei kit contenenti tinture e distillati, coi quali era possibile crearsi la propria bevanda alcolica, in stile “do it yourself”. In realtà questo meccanismo non ha funzionato, ma ci ha permesso di fare customer discovery, mettendoci in contatto con una lunga serie di persone che ci hanno portato a trovare la nostra vera strada. Un produttore di vino un bel giorno ci disse: “A me interessa la possibilità di utilizzare il mio vino per creare un vermouth, ma da solo non lo farò mai. Voi siete in grado di farlo?”. Da lì in poi abbiamo iniziato a lavorare diversamente, prevedendo non solo l’uso di tinture, ma anche la prototipazione di bevande e, in collaborazione con una distilleria, la possibilità di sviluppare batch numericamente molto contenuti, del taglio di 100 bottiglie. Trovammo una distilleria interessata a fare con noi questo esperimento e, poco tempo dopo aver consegnato le prime cento bottiglie prodotte in questo modo a un cliente, lui ci chiamò dicendo che ne voleva altre cinquecento, perché in un solo evento aveva esaurito il primo lotto. Fu allora che capimmo di avere delineato il nostro modello di business, ovvero produrre nuove bevande alcoliche in tempi estremamente ridotti: dall’idea alla bottiglia, dieci volte più in fretta rispetto ai metodi tradizionali e con un investimento più contenuto. Questo grazie all’impiego di tinture, cioè ingredienti semilavorati molto stabili e di livello qualitativo elevato, e all’ottimizzazione del processo. Quest’ultima si basa sulla prototipazione dei prodotti e sulla collaborazione con distillerie in grado di lavorare come noi chiediamo. Le distillerie sono per noi fornitori di alcune materie prime, partner per la parte di assemblaggio, imbottigliamento, etichettatura e spedizione, ma anche clienti, perché a volte ci chiedono di poter utilizzare i nostri semilavorati per sviluppare i loro prodotti. E a loro volta ricevono richieste di produzione di piccoli batch».

La sostenibilità secondo The Spiritual Machine
«Considerati i nostri background, abbiamo la sostenibilità nel Dna, in tutti e tre i suoi pilastri. Una startup deve essere replicabile, scalabile e globale, ma anche sostenibile, dal punto di vista ambientale e da quello sociale. Da un anno e mezzo, grazie alla partnership con una startup che si occupa di compensazione delle emissioni, abbiamo azzerato tutte le emissioni delle nostre spedizioni. E per il 2023 ci siamo posti l’obiettivo di arrivare al 50% delle nostre produzioni confezionate in vetro riciclato. In realtà sappiamo bene che la vera azione sostenibile sarebbe instaurare un sistema di vuoto a rendere, che ridurrebbe l’incidenza delle emissioni legate sia all’operazione di riciclo del materiale che al trasporto dei contenitori, ma in assenza di questa possibilità vogliamo comunque dare un segnale. E per il 2024 puntiamo a iniziare ad approvvigionarci di alcol presso distillerie carbon negative. Il processo di distillazione è decisamente energivoro, ma può essere reso meno impattante, per esempio con l’uso della geotermia». L’utilizzo della geotermia ha consentito ad ARPEPE di spingersi nella direzione dell’ecosostenibilità abbattendo ulteriormente le sue emissioni di CO2. «Quando si prospettava il secondo lockdown nell’autunno del 2020, da tempo pensavamo a un up-grade delle nostre tecnologie in cantina – spiega Emanuele Pelizzatti Perego -. Abbiamo così messo mano alla geotermia, portandola alla sua massima potenza. Sfruttando lo scambio termico, riusciamo oggi ad avere accumuli di caldo e di freddo che ci consentono di gestire contemporaneamente l’azienda sia dal punto di vista della climatizzazione degli ambienti sia produttivo, mantenendo i 14-16°C tutto l’anno, in un periodo storico caratterizzato dal surriscaldamento globale e da estati sempre più torride. Geotermia che è fondamentale per il miglior affinamento in legno e in bottiglia. L’implementazione ha però riguardato anche l’intero processo di trasformazione in chiave 4.0 rendendo l’impiantistica di cantina completamente interconnessa e gestita attraverso PLC. È stato inoltre realizzato un impianto ad aria compressa per la produzione dell’azoto: l’intero ciclo produttivo è oggi sotto azoto anche per quanto riguarda il legno e questo ci ha permesso di abbattere sensibilmente l’utilizzo della solforosa nei nostri vini». Dal conferimento alla fermentazione Le uve arrivano in cantina in cassette da 10 kg impilabili, un metodo di conferimento del raccolto che ARPEPE adotta dal 2007 in sostituzione alla tradizionale cesta valtellinese, la “brenta” da 50 kg. Una strategia che consente alla cantina di ottimizzare le prime fasi di lavorazione in cantina. «Dalla cassetta l’uva viene scaricata su un tavolo vibrante che elimina, anche grazie a un getto d’aria, impurità e insetti presenti – continua Emanuele -. Il tavolo vibrante funge da carico per la diraspatrice, attraverso la quale l’uva cade ad acini interi all’interno di una tramoggia collegata con una pompa peristaltica estremamente delicata che utilizziamo sia per il diraspato sia per i travasi sia per la svinatura». L’intera fase di fermentazione e macerazione avviene all’interno di tini in legno da 50 hL sotto azoto, anche se la cantina ha la possibilità di effettuare la vinificazione in acciaio. «A causa di alcune difficoltà di chiusura della fermentazioni, abbiamo avviato nel 2018 un progetto di selezione di lieviti autoctoni nei nostri vigneti che ci consente oggi di utilizzare tre diversi ceppi selezionati. La fermentazione in legno con macerazione a contatto delle bucce, dura mediamente 90-120 giorni anche se abbiamo avuto svinature a 150 giorni…». Affinamento, un passaggio chiave L’affinamento avviene in botti di legno di castagno contenenti piccole parti di rovere e acacia. «Il castagno è un’essenza che in passato era tradizionalmente usata qui in Valtellina per la costruzione delle botti – ricorda Emanuele -. Poi l’avvento del Rovere di Slavonia ha orientato i produttori, anche per un retaggio enologico, a rinnovare le loro bottaie. Dopo aver condotto delle prove con entrambe le essenze, abbiamo constatato la superiorità del castagno per i nostri lunghi affinamenti e per il suo corredo aromatico più simile a quello della nostra Chiavennasca. Partendo da questi risultati, abbiamo anche optato per questo mix tradizionale nei nuovi tini di fermentazione». Per ARPEPE l’affinamento in bottiglia riveste un ruolo chiave nell’evoluzione del vino: questo ha portato l’azienda a rivedere e razionalizzare i suoi ambienti produttivi – la cantina ha una superficie di 1.500 mq e una volumetria di 10.000 m3 – con l’obiettivo di portare l’affinamento in bottiglia fino a quattro volte la produzione media annuale, che è intorno alle 110.000 bottiglie. «Da parecchi anni ci affidiamo al contoterzismo effettuato da aziende specializzate con tecnologie sempre all’avanguardia – conclude Emanuele -. Una scelta quindi ben ponderata come d’altronde quella dei sistemi di chiusura. Da diversi anni ARPEPE, in armonia con il disciplinare di produzione, utilizza infatti esclusivamente chiusure tecniche per le sue bottiglie. Questo ci ha permesso di risolvere “l’incognita” sughero e di chiudere il cerchio nell’ottimizzazione del nostro percorso qualitativo dal campo alla tavola, ottenendo anche importanti risvolti in termini di riduzione della solforosa e di costanza qualitativa dalla prima all’ultima bottiglia prodotta».

Quante tipologie di bevande producete?

«Attualmente vermouth, gin, bitter, amari e cocktail premiscelati. Stiamo sperimentando molti nuovi prodotti nel campo degli hard seltzer, dei cocktail a base di birra e del sakè. E stiamo testando nuovi packaging: keg, lattine, bag in box».

Chi sono i vostri clienti?

«Produttori di vino, cui risolviamo il problema di aggiungere un prodotto a catalogo, con un costo ricerca e sviluppo sostanzialmente nullo e con un time to market molto rapido. Horeca, dove ci sono realtà interessate a sviluppare un distillato a marchio che serva per promuovere il brand del ristorante, dell’albergo o del premium bar al di fuori del confine del locale e del momento di fruizione. E infine, aziende che si rivolgono a noi per la regalistica, ma tra tutte le categorie di clienti che abbiamo quest’ultima è certamente quella caratterizzata da minore retention».

In quali mercati vi muovete?

«Lavoriamo prevalentemente in Italia, dove stiamo puntando a validare al 100% il nostro modello di business. Eventuali ampliamenti su altri mercati avvengono tramite i nostri clienti. Questo perché, da startup quale siamo oggi, ciò su cui ci dobbiamo principalmente concentrare è non solo far bene il nostro lavoro, ma anche dimostrare che è in grado di portare reputazione, crescita e scalabilità».

Le prospettive di crescita

«Per crescere – spiega Fornaca – una startup non ha bisogno solo di capitale, ma anche di competenze. Ecco perché per spingere sull’acceleratore della nostra crescita abbiamo scelto una strada estrema e molto sfidante, lanciando non un semplice fundraising, bensì la ricerca dei nostri Business Angel, ossia persone che oltre a investire su di noi in denaro fossero in grado di portarci competenze o business development o networking. Ne abbiamo cercati cento, e li abbiamo trovati. Pensavamo che avremmo principalmente portato a bordo clienti, e invece cammin facendo ci siamo resi conto di aver ottenuto risultati molto più importanti. Oggi, grazie a questa operazione, abbiamo la possibilità di confrontarci continuamente con profili straordinari in qualunque ambito: nei casi di collaborazione più puntuale e one shot, pro bono; oppure a prezzi inferiori a quelli di mercato, e comunque con un commitment non paragonabile a quello che caratterizza il normale rapporto consulente-cliente».