Mario Di Paolo: quando il progetto diventa trend

Mario Di Paolo

Mario Di Paolo, creativo abruzzese, visionario e fondatore del suo Spazio Di Paolo, è considerato un trend setter internazionale per la sua capacità di ideare, sviluppare e progettare etichette rivoluzionarie, cui fa seguire l’ottimizzazione tecnica dei processi di stampa e di etichettatura, segnando il passo di quella che è una trasformazione radicale del concetto di packaging.

Già da diversi anni, il suo contributo al progresso del linguaggio e del significato dell’etichetta ha consentito non solo di trasformare il progetto di packaging in opportunità per il cliente, ma da esso anche le soluzioni tecniche – che si utilizzino macchine tradizionali o costruite ad hoc – si evolvono per rendere più facile e rapido tutto il processo e arrivare a risultati efficaci e innovativi che diventano patrimonio creativo e tecnico condiviso con tutti.

In questa intervista ci spiega come il saper creare tendenza attraverso la crescente complessità dei suoi packaging sia frutto della sua metodologia di lavoro unica, che punta alla sperimentazione e si basa su una creatività visionaria, conoscenze tecniche e di ingegno, alle quali fa seguire una costante evoluzione dei processi di stampa e di etichettatura, per ottenere quella fattibilità produttiva che porta ad orientare l’intero settore.

Come crei un tuo packaging?

«Prima di tutto, ogni packaging deve essere progettato e fermato sulla carta. Dopo la visione, infatti, ci vuole una fase nella quale lo si disegna interamente e lo si ingegnerizza nel dettaglio per capire come realizzarlo integrando soluzioni tecniche in un unico assieme coerente tra progetto, stampa tipografica e imbottigliamento. Questo tipo di lavoro può avvenire solo se si possiede una conoscenza e una padronanza tecnica delle macchine da stampa. Infatti, una volta risolto il passaggio tecnico, che consente la produzione su larga scala, anche l’idea più incredibile diventa alla portata di tutti. Così, ogni volta che Spazio di Paolo apre una strada con un nuovo packaging, gli altri ne seguono le orme. Spazio Di Paolo è infatti visione, ricerca e sviluppo di cose mai viste e che non sono mai state prodotte prima, da nessuno, nel mondo. Qui noi le testiamo e le mettiamo a disposizione di tutti».

Quali sono le richieste dei tuoi clienti?

«In realtà c’è una distinzione nei progetti che accetto e faccio. Ad esempio, quando un mio cliente come Luxoro ha l’esigenza di valorizzare le tecniche di nobilitazione utilizzando foil e lavorandoli tramite i clichè che produce, si tratta sicuramente di un’etichetta particolare. Allo stesso modo comunque altri clienti cercano da Spazio Di Paolo la raffinatezza del dettaglio. Quindi, se da una parte c’è bisogno dell’intuizione creativa, dall’altra c’è chi vuole l’esperienza».

In quale direzione vanno le etichette del momento? Cosa ci dici di quelle tridimensionali che hai lanciato?

«La massima attenzione che puoi ottenere con un packaging tridimensionale non la ottieni con altre tecniche convenzionali. Quindi l’etichetta 3D aumenta la percezione e di per sé fa un lavoro comunicativo incredibile, oltre a dare una connotazione artistica e culturale alla bottiglia. Ovviamente presuppone delle accortezze che la circoscrivono in alcuni aspetti e ambiti: il packaging 3D è sicuramente riservato a un prodotto d’alta gamma. La tecnica per ottenere un’etichetta con l’effetto 3D si può produrre sia sulle macchine da stampa in maniera automatica e alla massima velocità e sia andare in imbottigliamento perché è stata studiata, sviluppata e interamente ingegnerizzata da me. Rimane il fatto che il tridimensionale si rivolge a progetti estremamente virtuosi e rivela una estrema delicatezza. Non che non sia una tendenza, ma un’etichetta così sconta un certo riguardo d’uso. Se deve andare sulla grande distribuzione deve essere utilizzata in modo attento».

Quali altre etichette basate su tue tecniche hanno fatto tendenza?

«Spazio Di Paolo ha introdotto tre grosse innovazioni nel mondo del packaging design a livello mondiale. La prima è il lavoro fatto sulle etichette soprapposte. Le abbiamo sdoganate tecnicamente e rese appetibili dal punto di vista di comunicazione e di valorizzazione dello storytelling. Per cui la combinazione di più carte e materiali è diventato parte integrante del racconto di un vino. Sicuramente di questa tecnica siamo i massimi esponenti al mondo. Quando un decennio fa ho cominciato a sperimentare le sovrapposizioni, questo tipo di lavoro veniva visto come utopico. Oggi è invece alla base dell’etichettatura normale. A me interessava la scultura, la struttura degli strati, uscire fuori dalla bidimensionalità standard per sperimentare un lavoro di sartorialità, attraverso la composizione grafica e la costruzione tecnica, come un’architettura che si eleva verso il fruitore. E quando ritenevano che le mie sovrapposizioni fossero speciali e di nicchia, io sapevo già che negli anni sarebbero state incluse nella pratica comune. Infatti, oggi, tutte le aziende che stampano hanno all’interno delle macchine per accoppiare i materiali, e tutti i produttori di macchine da stampa, soprattutto per il finishing che è la parte finale, hanno costruito macchine per accoppiare più carte. Quindi l’industria ha fabbricato nuove apparecchiature per le sovrapposizioni basandosi su tutto il lavoro che Spazio Di Paolo ha profuso a livello mondiale nel corso degli anni. Probabilmente, parlando del packaging tridimensionale che sviluppo e pratico già dal 2015, tra 5-7 anni non sarà più visto come un progetto particolare, ma come una tecnica che prende piede in tutto il settore».

Quando parli di automatizzazione, come si devono adeguare tipografie e produttori di macchine?

«Per alcune tecniche ci vogliono delle macchine particolari. Non tutte le tipografie le acquistano per via dei costi e delle specializzazioni di lavoro. Sono infatti strumentazioni che eseguono lavorazioni particolari anche in altri ambiti come la profumeria e la farmacologia. Quando iniziai a fare questi progetti, le macchine c’erano già, ma nessuno aveva mai portato prima alle tipografie un metodo progettuale e spiegato loro che potevano realizzare un packaging innovativo anche con una delle loro macchine. Quindi la libertà di un progetto sta nel saper utilizzare gli strumenti a nostro piacimento. Passare attraverso il pensiero, l’idea, la progettazione e quindi dare struttura a un concetto mettendolo in pratica attraverso la conoscenza della tecnica e della strumentazione. Per poi stamparlo e presentarlo sul mercato portandolo avanti negli anni».

Il tuo rapporto diretto con tecnici e ingegneri è la chiave per correre in avanti?

«Sì, è fondamentale che in un progetto ci sia scambio, intesa e disponibilità da parte di chi costruisce e gestisce le macchine. Anche in questo caso, la mia esperienza ha sdoganato una figura importante: quella del tipografo che all’epoca rappresentava la punta della piramide. Dettava lui i tempi e diceva non si può fare. Tu ti dovevi adeguare. È poi successo, forse grazie anche a noi, che oggi si crea invece uno scambio di idee con la tipografia e gli ingegneri della tipografia, quindi con i tecnici, che sono disponibili a modificare una macchina che hanno sviluppato per fare una mia etichetta. Soltanto arrivando a comunicare con chi le ha fatte è possibile capire meglio i tempi di reazione, i versi e tutta una serie di nozioni tecniche che servono per sviluppare meglio il concept di un’etichetta».

Facci un esempio

«Uno è quello del packaging Toro: una linea di vini di Radica in cui abbiamo utilizzato etichette con differenti immagini, ma con un elemento ricorrente che era poi il leit motive di tutta la linea. Un buco tondo di 17 mm sormontato dal suo vuoto. La carta dell’etichetta era quindi bucata, con sopra – a distanza 3/4 mm – un altro tondino: un bollino di carta stampato a colore, della stessa dimensione, e perfettamente in asse. Abbiamo creato una fustella disegnata in questo modo e siamo passati a stampare e a etichettare con una bobina di prova. Durante l’etichettatura a 3.000 bottiglie/ora, ci siamo accorti che il bollino veniva spostato e non era più in asse col suo vuoto. Quindi, quando usciva dalla tipografia e andava sulla bobina era nella corretta posizione, ma non nella successiva catena di etichettatura. Accadeva cioè che lo stesso pallino, prima in asse, veniva poi spostato di 2/3 mm sulla bottiglia. La tipografia suggerì di ingrandire il bollino, io però avevo scelto la dimensione esatta parlando con l’ingegnere che produceva la macchina per imbottigliare. Ragionando insieme per capire i tempi di presa del bollino da parte della macchina, ho capito che l’errore avveniva per via della carta, che nel momento dell’etichettatura si tendeva decentrando il dettaglio. Quindi ho risolto semplicemente spostando il bollino di 2 mm nella fustella per anticipare il tempo di applicazione. In questo caso non c’è stato bisogno di una trasformazione meccanica sulla macchina, ma fondamentale è stata l’interazione e lo scambio di idee con il tecnico per arrivare a quello che volevo fare».