Samuele Ambrosi: competenza e studio, gli ingredienti di ogni buon cocktail

Schietto, ironico, informale, preciso e perfezionista – soprattutto nei confronti di se stesso – cultore della conoscenza, con alle spalle un percorso di studi, corsi ed esperienze in giro per il mondo e, davanti a sé, una voglia sempre ardente di apprendimento, affermazione e professionalità. Fin dall’inizio, da quel suo primo impiego intrapreso a soli 15 anni. Samuele Ambrosi è oggi tra i bartender più affermati del mondo, proprietario di uno dei migliori cocktail bar d’ItaliaCloakroom, situato nel centro storico di Treviso – e, da anni, tra i protagonisti del settore della miscelazione e del bartending. Lui si descrive così: «Agonista nella disciplina della mixology, sono un inesauribile appassionato di tutto ciò che circonda il mondo dei cocktail; impulsivo, romantico, amorevolmente testardo e, non lo nascondo, una persona che a volte riesce a litigare anche in autonomia! Ricerco continuamente sfide e obiettivi e imparo ogni giorno da chi incontro. Oggi mi vedo come un professionista che ha ancora molto da provare, realizzare e trasmettere. Mi guardo spesso indietro, ripenso a ciò che ho fatto e a come l’ho fatto e l’unica cosa che mi ripeto è “potevo farlo meglio…”, perché non mi do mai per vinto e, raggiunto uno scopo, ristudio il percorso per migliorare la strada che mi ha condotto al risultato».

Cosa significa essere un bartender?

La nostra professione inizia ad avere i riflettori puntati e cominciamo a essere considerati su platee internazionali, qualificandoci sempre di più. Era ora. C’è una cosa, però, che molti sottovalutano: il barman non è semplicemente colui che realizza cocktails, ma molto di più. Fare il barman significa sapere di dover sacrificare vita di coppia e tempo libero; presuppone uno studio continuo e la ricerca ininterrotta di tecniche e bilanciamenti; implica il viaggiare molto, non per piacere, ma per confrontarsi e dare vita a nuovi progetti. Il barman lavora sempre in piedi e sempre sorridendo, gestisce risorse umane, motiva la propria squadra, fa network, studia il marketing, adopera strategie di vendita e realizza il proprio business, ma, sopra a ogni cosa, sa superare le aspettative del cliente! Questo significa essere un bartender. Oggi il settore gode di una visibilità mai avuta prima, ma quello che mi preoccupa è la sua gestione: vedo purtroppo, infatti, sempre più “star” e sempre meno bartender.

Sei stato spinto fin da ragazzo verso questa professione?

La mia famiglia ha portato avanti fino all’anno scorso un’attività di ristorazione a Legnago (VR) e io, sin da piccolo, ho sempre cercato di aiutare i miei genitori dietro il banco, con le ordinazioni e il lavaggio dei bicchieri… tanti bicchieri! Ho frequentato la scuola alberghiera a Montagnana, in provincia di Padova, e anche grazie al sostegno familiare, ho cercato di raccogliere quante più esperienze lavorative possibili. La mia prima stagione la feci ad Asiago a 15 anni. Poi, ancora minorenne, presi un treno in corsa in direzione Badrutt’s Palace Hotel, a St. Moritz, uno dei migliori hotel del pianeta, dove feci tre stagioni paragonabili alla Naia: regole rigidissime, protocolli precisi, qualità ai massimi livelli. Lì imparai un talento che oggi è quasi sparito: il savoir-faire. Capii come pormi con i clienti e perché debbano essere messi sempre al primo posto. Incontrai principi, sultani, attori di Hollywood, magnati dell’industria e della finanza e, tra tutti, ebbi il grande onore di lavorare in più occasioni per una delle figure che più mi colpirono, l’Avvocato Agnelli… un’esperienza incredibile!

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