I principali ostacoli che possono influenzare la vita di un olio e la loro risoluzione.
Il processo al quale tutti gli oli e i grassi vanno incontro nel tempo è quello di ossidazione ed è proprio questo fenomeno in genere a compromettere la shelf-life e la commestibilità delle sostanze grasse. Oltre a questo processo possono essercene altri che riguardano alcune specifiche categorie di prodotto, in particolare quelli estratti mediante processi meccanici o fisici, come gli oli extravergini di oliva che possono subire processi fermentativi causati dalla presenza di acqua e substrati fermentescibili.
Restando nell’ambito del processo ossidativo, le tecnologie di prolungamento della shelf-life mirano in generale a contrastare i seguenti fattori detti pro-ossidanti:
- presenza di agenti che catalizzano il processo ossidativo (ad esempio metalli);
- alte temperature;
- presenza di luce;
- presenza di ossigeno.
Limitare l’effetto catalitico
Per quanto attiene al primo punto è necessario che i materiali che vengono a contatto con gli oli durante le fasi di produzione, stoccaggio e imbottigliamento siano inerti. I metalli non hanno in generale tale caratteristica in quanto portano alla formazione di specie radicaliche dell’ossigeno (dette anche ROS, dall’inglese Reactive Oxygen Species, ovvero specie reattive dell’ossigeno) e del radicale idrossilico (OH•) che promuovono il processo ossidativo. Proprio per la sua inerzia nel processo ossidativo, oltre che per tutti gli altri aspetti legati alla sicurezza alimentare, uno dei materiali più utilizzati in ambito alimentare e quindi anche nel settore oleario è l’acciaio inossidabile. Infatti, è noto che il processo di ossidazione è più rapido in presenza di agenti catalizzanti (metalli come, ad esempio, il ferro o il rame tra i più diffusi) che favoriscono la fase di induzione della reazione. In generale, i metalli di transizione possono promuovere la formazione dei radicali liberi mediante il trasferimento di un elettrone durante le reazioni in cui si determina un cambiamento dello stato di ossidazione dello ione metallico; tale coinvolgimento può verificarsi nelle fasi di induzione e decomposizione degli idroperossidi. Nel 1993 Angerosa e Di Giacinto, due ricercatrici del CRA-Oli di Pescara, hanno documentato il cambiamento di colore e profumo, dovuto alla degradazione delle clorofille e dei polifenoli, in oli vergini di oliva addizionati di Ni e Mn in quantità riscontrabili in campioni reali. Più ampiamente, il professor Pokorny nel 1968, studiando l’efficienza di alcuni metalli nell’ossidazione dell’oleato di isopropile ha specificato il seguente ordine di attività catalitica: Co > Mn > Cu > Fe > Ni.
L’azione catalizzante e deleteria dei metalli nella perossidazione dei sistemi lipidici è stata documentata ampiamente in un articolo scientifico pubblicato nel 1998 dal professor Rossell dell’Istituto inglese Leatherhead Food Research. Rossell indica Fe e Cu come i componenti minori più dannosi nella promozione dell’ossidazione, alle alte temperature, se presenti in quantità superiori rispettivamente a 100 e 10 mg/kg. Tuttavia, non è altrettanto chiaro il ruolo giocato da alcuni composti presenti negli alimenti che possono interagire in maniere differenti con gli ioni metallici. In particolare, alcune classi di molecole della frazione minoritaria dell’olio vergine di oliva sono motivo di discussione a proposito della loro potenziale duplice azione. Infatti, i fenoli presenti nell’olio vergine di oliva sono ritenuti agenti antiossidanti sia per la loro capacità di interrompere la catena di propagazione radicalica essendo donatori di idrogeno, sia per la possibilità di chelare gli ioni metallici sequestrandoli, rendendoli incapaci di decomporre i perossidi nella reazione di Fenton, o impedendone stericamente l’accesso da parte degli idroperossidi. Il pomo della discordia tra i ricercatori sembra essere la capacità degli stessi fenoli di poter ridurre gli ioni metallici, portandoli allo stato di ossidazione più basso, rendendoli più efficaci nella catalisi della rottura degli idroperossidi promuovendo così l’ossidazione lipidica. Numerosi studi sono stati fatti a proposito; tuttavia, mancano, come spesso accade, sistemi standardizzati di valutazione sia in termini di metodo, sia in termini di condizioni sperimentali per avere una tesi univoca.
In generale, tutte le macchine di recente fabbricazione sono realizzate in materiali che hanno caratteristiche di inossidabilità; tuttavia è importante ricordare che i rischi sono sempre in agguato:
- in alcuni impianti sono ancora in uso alcuni accessori in materiali metallici non inerti che possono favorire il processo ossidativo;
- le saldature rappresentano una fase critiche del processo di montaggio e manutenzione degli impianti, pertanto è importante che vengano utilizzate le tecniche ed i materiali adeguati a garantire l’inerzia dei metalli.
Evitare temperature troppo elevate ma anche troppo basse
Teoricamente le temperature più basse sono quelle più adeguate per la conservazione dei grassi. Il processo ossidativo rallenta con le basse temperature. Tuttavia, è importante sottolineare che l’elevato abbassamento della temperatura che porta alla cristallizzazione degli oli può essere dannoso. Sicuramente tale processo è da evitare per gli oli estratti a freddo così come per tutti gli oli extravergini di oliva in quanto il processo di cristallizzazione porta all’abbassamento della shelf-life.
A tal proposito vanno ricordati alcuni lavori sperimentali, condotti da alcuni ricercatori dell’Università di Bologna, che hanno dimostrato come il contenuto dei peculiari composti fenolici tipici dell’olio extravergine di oliva risenta delle basse temperature. In un primo lavoro pubblicato nel 2005 è stato evidenziato come un repentino e drastico abbassamento della temperatura (inferiore ai -20°C) determinasse un abbassamento del contenuto in composti fenolici e di conseguenza della vita dell’olio (stimata mediante dei test di ossidazione accelerata). In particolare (figura 1), in questo lavoro sperimentale erano stati messi a confronto tre diverse tipologie di oli vergini di oliva monovarietali, caratterizzati da un diverso contenuto in composti antiossidanti. I risultati hanno mostrato come gli oli a più alto contenuto in composti fenolici risentissero maggiormente della cristallizzazione degli oli.
Allo scopo di verificare se tale fenomeno potesse avvenire anche a una temperatura raggiungibile durante la conservazione casalinga e/o industriale nella stagione invernale, è stato valutato l’effetto dello stoccaggio di alcuni oli vergini di oliva, appena prodotto, protraendolo per 15 giorni alla temperatura di 4°C. Come riportato in figura 2, anche in queste condizioni termiche è stato registrato un significativo calo del contenuto in composti fenolici e, di conseguenza, della vita dell’olio vergine di oliva.
Questo effetto può essere imputabile alla precipitazione di tali composti antiossidanti, presenti in microemulsione nell’olio, determinata dall’abbassamento delle temperatura con conseguente non ritorno allo stato fisico originario una volta ripristinata la temperatura iniziale.
Ridurre la presenza di luce e ossigeno
La luce può causare l’innesco del processo ossidativo e risulta di grande importanza sia nella fasi di produzione, conservazione e imbottigliamento così come nelle fasi successive durante le quali è maggiore il rischio di esposizione del prodotto alle radiazioni luminose. Le radiazioni luminose di lunghezze d’onda più corte hanno effetti negativi più deleteri sugli oli rispetto alle lunghezze d’onda maggiori. Pertanto, i materiali di confezionamento devono prevedere sistemi che permettano di limitare che la luce e soprattutto quella a lunghezza d’onda più corta colpisca gli oli.
Già da molti anni i gas sono entrati nel settore alimentare come coadiuvanti in diverse fasi del processo di produzione o di conservazione. Anche in ambito oleario si sono sperimentate possibili applicazioni dei gas in varie fasi del processo produttivo. I primi studi di diffusione di gas nell’olio di oliva risalgono alla fine degli anni Sessanta.
A differenza di quanto accade in molti settori della tecnologia alimentare in cui si possono impiegare vari tipi di gas (dai gas inerti, alla CO2, fino all’ozono) nel settore oleario sono tecnologicamente ammessi soltanto alcuni di questi. Infatti, sempre in riferimento al processo di ossidazione che porta allo scadimento qualitativo per via della formazione di radicali liberi e successivamente di sostanze ossidate tanto la CO2 quanto l’ozono così come l’ossigeno non sono consigliabili. Infatti, questi ultimi gas possono innescare o accelerare l’ossidazione degli oli e pertanto non devono essere impiegati in ambito oleario.
Infatti, l’uso di gas nel settore oleario ha proprio lo scopo opposto, quello di abbattere e sostituire l’ossigeno a contatto con l’olio con un elemento non reattivo, capace di svolgere un’azione protettiva nei confronti del prodotto. Gli unici gas chimicamente inerti nei confronti dell’olio, commercializzati e utilizzati nelle fasi di produzione e confezionamento degli oli sono l’azoto e l’argon. La CO2 o anidride carbonica (già ampiamente utilizzata in enologia) non è così poco reattiva da poter essere utilizzata nell’olio; può interagire con l’acqua contenuta negli extravergini, può determinare l’innesco di reazioni non gradite e può essere responsabile o corresponsabile della comparsa di odori anomali.
L’azoto e l’argon invece non reagiscono con il prodotto, allontanano l’ossigeno e possono essere utilizzati nelle fasi di trasformazione, filtrazione, conservazione e confezionamento dell’olio.
Azoto e argon per allontanare l’ossigeno
Ci soffermiamo sull’impiego di questi gas in queste due ultime fasi, che precedono la commercializzazione dell’olio. L’ossigeno che macroscopicamente viene rimosso dalla cisterna o dalla bottiglia è quello presente nel così detto “spazio di testa”, ovvero in quella porzione del contenitore che separa il livello dell’olio dalla sommità. La riduzione di questo spazio e la rimozione di questo volume di aria (contenente ossigeno) è sempre consigliabile, qualsiasi sia il contenitore impiegato per la conservazione: dalla più piccola bottiglia al contenitore di più grande dimensione. Naturalmente la sua presenza in un piccolo contenitore, come una monodose, incide negativamente molto di più rispetto a un piccolo strato di aria in una cisterna piena. Per la monodose, che non può essere riempita per intero per non causare la fuoriuscita di olio durante l’operazione di apertura, la sostituzione dello spazio di testa “atmosferico” con inerte è assolutamente irrinunciabile per mantenere la qualità dell’olio entro la data indicata come termine massimo di conservazione.
Tuttavia, sono d’obbligo alcune indicazioni che potrebbero sembrare superflue ma che sono invece fondamentali: la monodose, la bottiglia o la cisterna nelle quali si opera la modificazione dell’atmosfera e i relativi tappi devono garantire una chiusura a tenuta stagna per evitare che il gas inerte si allontani e l’ossigeno penetri durante la conservazione. È proprio il tappo, generalmente, il punto debole: infatti i sistemi di chiusura normalmente impiegati nel confezionamento dell’olio spesso non garantiscono tale condizione, purtroppo tale accorgimento non è così scontato per gli operatori del settore. Ovviamente, per l’impiego del gas in cisterne e in contenitori di grandi dimensioni tale avvertenza è di più semplice applicazione in quanto la chiusura è garantita e il gas viene insufflato consentendo solo lo sfiato e garantendo il non ritorno dell’aria. È poi del tutto superfluo cercare di realizzare il riempimento in atmosfera protetta con gas inerte non curando la fase, più importante, di sostituzione dell’ossigeno nello “spazio di testa”. Anche un breve contatto con l’atmosfera ripristina infatti l’ossigeno nella fase gassosa. Per agire correttamente si possono isolare le zone di riempimento dell’olio e quella di sostituzione del gas, ponendole in atmosfera inerte a pressione leggermente superiore rispetto a quella atmosferica, per evitare l’infiltrazione di aria e “lavando” la superficie dell’olio in bottiglia con un soffio di azoto o argon. Allo stesso modo è importante ricordare che, oltre all’ossigeno presente nella parte superiore del contenitore, una parte si trova anche disciolto nell’olio. Tenendo in considerazione questo aspetto è evidente che il miglior sistema di insufflazione dell’olio è quello che procede dalla parte bassa del contenitore, già riempito con olio, in modo che il gas possa contribuire alla rimozione, anche se parziale, dell’ossigeno disciolto. A tal proposito è utile menzionare che per ottenere uno strippaggio dell’aria e dell’acqua dall’olio potrebbe essere sperimentato anche l’impiego degli ultrasuoni.
La scelta di utilizzare azoto o argon non può prescindere dalla differenza di costo. L’azoto compresso costa circa un terzo rispetto all’argon. Minori sono, per entrambi i gas, i prezzi dei prodotti allo stato liquido; naturalmente, all’atto dell’utilizzo, i gas liquidi devono essere vaporizzati. Per quanto riguarda i gas allo stato liquido il divario di costo aumenta, infatti l’azoto liquido costa circa un quinto dell’argon liquido.
La differenza di prezzo tra gas liquidi e compressi risiede principalmente nel volume che occupano allo stato liquido o compresso e le problematiche di trasporto connesse. Generalmente per trasformatori o imbottigliatori che consumano da 400 a 500 m3 al mese si provvede a forniture in bombole, sopra i 900 m3 i fornitori consegnano i gas liquidi.
Per fare un esempio pratico della differenza di costi di trasporto possiamo dire, con una certa approssimazione, che 16.000 m3 (dimensioni di una cisterna di un tir) di gas liquidi si trasportano utilizzando circa 1600 bombole di gas compressi, ossia impiegando almeno cinque mezzi, invece di uno.
Dal punto di vista chimico l’azoto è una molecola diatomica (peso atomico: 14,007 amu; densità:1,251 kg/ m3 a 0°C) mentre l’argon è un atomo singolo (peso atomico: 39,948 amu; densità: 1,784 kg/ m3 a 0°C), entrambi sono incolori, insapori e inodori e per l’uso alimentare devono avere i requisiti di purezza previsti dalle normative vigenti. Oltre alle differenze di costo i due gas hanno diverse qualità d’uso: l’argon, infatti, è più solubile in acqua dell’azoto (circa due volte e mezzo), mentre quest’ultimo presenta la stessa solubilità in acqua dell’ossigeno. Il maggior peso specifico dell’argon fa sì che si allontani più lentamente dal prodotto.
Il mercato dell’argon, al momento, è in gran parte italiano; molto raramente l’innovazione del suo impiego trova spazio negli altri paesi europei (in alcuni paesi non è consentito l’utilizzo in ambito alimentare); attualmente viene usato nell’industria enologica e per proteggere produzioni “preziose” di alimenti che contengono oli o grassi (filtrazione, conservazione); di questo gas vengono apprezzate, come già detto, le migliori caratteristiche di “fissazione”.
Nel caso in cui il gas venga fatto gorgogliare nel prodotto dal basso, per sostituire l’ossigeno disciolto nell’olio si consiglia l’azoto che per via della sua minore densità potrebbe risultare teoricamente più adatto.