Il 40% dell’olio extra vergine di oliva italiano è qualitativamente superiore rispetto al resto della produzione nazionale. “Di qualità”, secondo la definizione di Symbola e CRA – Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’Analisi dell’economia agraria – non significa solo qualità organolettica, ma soprattutto frutto di una filiera che, in tutti i suoi passaggi – dalla terra, alla molitura, alla distribuzione – riserva le giuste attenzioni verso l’ambiente, il capitale umano, la gestione delle risorse e dei rifiuti, che riduce i fitofarmaci, adotta certificazioni, rispetta i parametri di qualità salutistica.
Lo dice il primo PIQ – Prodotto interno qualità sulla filiera oleicola, realizzato da Fondazione Symbola e CRA in collaborazione con Coldiretti e Unaprol. Per misurare la qualità della filiera, Symbola e CRA hanno messo insieme 102 indicatori che rappresentano il più completo set informativo sulle diverse fasi produttive dell’olio. Alcuni dimostrano tendenze positive, come il contenimento dei costi di consumo dell’acqua, la certificazione biologica, la quota di olio recuperato sul totale distribuito che vengono soppesati con segnali d’allarme quando nella filiera qualcosa non torna. Se, ad esempio, nella fase agricola, i costi per fitofarmaci e fertilizzanti aumentano, incidendo sui margini aziendali, e contemporaneamente calano i prezzi alla vendita delle olive, come registrato negli ultimi anni, le aziende risultano sotto stress a discapito della qualità e, in casi estremi, ricorrono a soluzioni non in regola.
Attualmente si osserva dunque una polarizzazione del mercato: da una parte, troviamo le imprese che scelgono la qualità e fanno crescere il valore del loro prodotto; dall’altra, ci sono quelle che, in difficoltà, tagliano sulla qualità puntando alla quantità. E’ così che si giunge a un ampliamento della forbice tra la produzione di qualità, ferma al 39,2%, e una di basso livello, pari addirittura al 60,5% di quella nazionale. Sebbene il nostro Paese copra infatti da solo ben il 20% della produzione comunitaria – laddove l’Unione Europea detiene il primato mondiale – nel 2014 si è registrato un allarmante aumento del 38% di olio di importazione, contestuale al calo di oltre il 35% dei raccolti nazionali.
Tali dati, con qualche anno di anticipo, avevano colto le difficoltà del settore, oggi rivelate, ad esempio, dai sequestri di olii e grassi da parte dei Carabinieri dei NAS, aumentati dal 2007 al 2014 del 483%, raggiungendo solo lo scorso anno il valore di 7,5 milioni di euro.
L’obiettivo che ci si pone è invece quello di stimolare il paradigma dell’economia della qualità, secondo cui a minor quantità corrisponde un maggior valore dei prodotti: questo è accaduto ai produttori di vino che, travolti nello scandalo del metanolo, hanno cambiato rotta, passando dalla quantità a basso prezzo alla qualità del legame con il territorio, con vitigni pregiati e recupero di una tradizione antica.
La definizione del PIQ olio rappresenta dunque il primo database attraverso cui valutare gli oli in commercio: uno strumento di trasparenza e informazione per le istituzioni deputate al controllo di produzione e prodotto, un vademecum per le imprese del settore, ma anche un sussidiario fondamentale per i consumatori, che si rilevano poco informati.
Che differenza passa allora tra una bottiglia d’olio extravergine di oliva da 3 euro e una da 9? La diversità sta nel sapore, ovviamente, e anche in parametri importanti come i polifenoli, lo squalene, il rapporto acido oleico/linoleico sui quali i diversi olii hanno valori che possono essere variare anche molto.
Come dimostrano i dati rilevati da Voice from the Blogs per PIQ Olio sulle conversazioni via internet a livello globale, analizzando quasi 2 milioni di post tra quelli in inglese e quelli in italiano (tra blog, news, forum, social network, su tutto il 2013), nei confronti dell’olio prevale un atteggiamento positivo (80% dei post in inglese, 94% in quelli in italiano). Ma dietro questo approccio c’è una scarsissima consapevolezza e informazione. Dai post italiani risulta, ad esempio, che il 12,8% degli utenti rivela l’abitudine a impiegare un “olio qualsiasi”. A confermare la scarsa informazione, è l’uso fatto in cucina. Risulta bassissimo (3,7%) l’accostamento tra extravergine e frittura: quando invece proprio l’extravergine è ideale allo scopo. Anche l’analisi del blocco a sentiment negativo rivela una scarsa conoscenza dell’olio: in più del 30% dei casi la percezione negativa è giustificata sostenendo che l’extravergine di oliva “non è sano e fa ingrassare”.