Così l’hi-tech trasforma uno stabilimento storico

Davvero inconsueti gli ambienti che si aprono agli occhi di chi visita lo stabilimento di Birra Menabrea, nel pieno centro di Biella. L’acciaio, il cristallo e le apparecchiature digitali tipiche di un moderno impianto di produzione fanno un tutt’uno con storici edifici che, risalenti alla prima metà del XIX secolo, sono entrati a pieno titolo a far parte dell’archeologia industriale di quest’angolo del Piemonte. Un’archeologia che riguarda però appunto l’architettura, perché quanto alle etichette proposte al mercato non c’è nulla di più attuale e realizzato con procedure che tengono nella massima considerazione qualità da un lato e sicurezza dall’altro.

La sciacquatrice
La sciacquatrice

Bottiglie di vetro e fusti

Sorta nel 1846 e apprezzata dagli intenditori proprio per la gamma che al suo 150° anniversario è stata dedicata, prima che il catalogo si ampliasse ad altre pregiate birre dedicate al canale ristorazione, Menabrea, con i suoi 200.000 ettolitri commercializzati ogni anno (il 40% in bottiglie di vetro a perdere, il 60% in fusti), può essere considerata come il più grande birrificio artigianale nazionale o come la più piccola industria birraria. Si tenga, infatti, presente che se nel Nord America alcune cosiddette craft breweries (termine tradotto forse impropriamente in birrifici artigianali) superano il milione di ettolitri l’anno, in Italia chi si trova a quei livelli è considerata industria a tutti gli effetti.

A rendere stridente ogni confronto del nostro Paese, dove ancora domina il vino, con altri tradizionali produttori di birra è del resto il consumo pro-capite ancora scarso da noi (supera di poco i 29 litri) mentre la produzione è di oltre 13 milioni di ettolitri, 2 dei quali esportati a fronte di importazioni di 6, per cui il consumo nazionale oltrepassa i 17 milioni.

Chiusa questa parentesi rieccoci all’interno degli edifici di mattoni rossi, pietra e legno di Menabrea. Ci troviamo in particolare, in occasione del confezionamento di bottiglie da 66 cl, all’inizio della linea dove vengono posati, di fronte ai primi metri di rulliera, i pallet di contenitori nuovi forniti dalle vetrerie nei formati previsti dal programma di confezionamento.

La stazione di riempimento
La stazione di riempimento
Il successo viene da lontano
Biella suggerisce immagini di opifici con le loro lane, cotoni e tessuti. In effetti, sia in città sia nei dintorni, proliferano gli stabilimenti industriali o, a causa della delocalizzazione produttiva, quel che ne resta. A concentrarli qui è stata la gran disponibilità di acqua purissima, la stessa che ancora oggi permette a Birra Menabrea di stupire il palato dei consumatori. Leggera, la migliore per le birre a bassa fermentazione, l’acqua che qui scaturisce dalle sorgenti fu apprezzata dai fondatori Antonio e Gian Battista Caraccio i quali, proprietari di una caffetteria, avviarono nel 1846 la produzione di birra con un certo Welf di Gressoney. Otto anni dopo, tuttavia, i fratelli, già soli, affittarono la birreria a Giuseppe Menabrea e Anton Zimmermann che ne divennero proprietari nel 1864. Zimmermann lasciò l’azienda nel 1872 a Giuseppe e ai due figli Carlo e Alberto che spinsero la produzione puntando su due birre, una bionda di stile pilsner e una scura di stile münchner che andava per la maggiore. Quando anche l’ultimo della famiglia Menabrea venne a mancare, nel 1885, la società fu ceduta temporaneamente in affitto per poi essere condotta, e siamo nel 1896, da Emilio Thedy e Augusto Antoniotti, consorti di due delle figlie di Carlo. A quel punto la fabbrica va incontro a un lungo periodo di successi e riconoscimenti nazionali e internazionali, tanto che all’inizio del ‘900 in Menabrea lavorano circa 30 persone con una produzione annuale che si aggira sui 9.000 ettolitri. Le cose vanno bene anche oltre la Prima Guerra Mondiale. Alla fine degli anni ’20 la G.Menabrea & Figli tocca i 12mila ettolitri, alla pari nello stesso periodo di Moretti, mentre la Birra Italia di Milano era a 40mila, la Italia Pilsen a 70mila e la Peroni a 131mila. All’inizio degli anni ’30 le birrerie italiane erano circa 60, ma andranno incontro a un lungo processo di concentrazione che farà scomparire molti marchi. Menabrea sarà tra i pochi a resistere. A cavallo tra le due guerre mondiali i gusti cambiano e stimolano, soprattutto nei mesi più caldi, la domanda di birre chiare e rinfrescanti. Menabrea si sviluppa anche nel secondo dopoguerra pur mantenendo un’impronta regionale arrivando a produrre oltre 40mila ettolitri nei primi anni ’80 quando, guidata da Paolo Thedy, inizia anche a distribuire birre d’importazione. L’aspra concorrenza con le multinazionali intenzionate a fare dell’Italia una terra di conquista in campo birrario spinge Menabrea nell’orbita del gruppo Forst agli inizi degli anni ’90 rafforzando il polo industriale “made in Italy”. L’azienda di Biella è ora diretta da Franco Thedy, amministratore delegato: è a lui che si deve la scelta di investire a fondo installando un modernissimo impianto d’imbottigliamento e di ampliare la gamma di prodotti realizzabili con la birra Menabrea con l’obiettivo di rafforzare ulteriormente la forza del brand. La birra di Biella si trova ora nella crema di prelibati cioccolatini, tra gli ingredienti di un soffice Panettone di pasticceria, nell’impasto di “Birrino”, un gustoso salame locale, e nella salamoia di maturazione di “Sbirro”, formaggio prodotto da un caseificio del territorio.

In cerca di allineamento

I contenitori vengono metodicamente depalettizzati formando un insieme inizialmente informe alla stregua di una folla d’individui in cerca di allineamento. Allineamento che si realizza gradatamente in seguito al movimento studiato dei nastri trasportatori che riescono a disporre le bottiglie in fila indiana già a pochi metri da quel che resta del pallet.

La lunga colonna di vetro compie così un primo tratto del suo itinerario nei vasti locali in cui è installato l’impianto di confezionamento, la cui potenzialità è di 15.000 bottiglie l’ora (i fusti seguono una linea differente in grado di riempirne 300 l’ora).

Il primo tratto del percorso le bottiglie lo terminano giungendo al gigantesco monoblocco Krones Variojet Mecafill VKPV che contiene in serie sciacquatrice, riempitrice e tappatrice. Il sistema è concepito come tre stazioni ad altissima tecnologia, la prima delle quali capovolge le bottiglie iniettando al loro interno l’acqua di lavaggio eliminata subito dopo la prudenziale sanificazione affinché possano in seguito presentarsi pronte alla riempitrice accanto, dove la birra filtrata confluisce grazie a un susseguirsi di tubazioni d’acciaio inox.

Il passaggio nella riempitrice avviene nei pochi istanti richiesti alla macchina per compiere una rotazione su se stessa, durante la quale ogni bottiglia riceve il prodotto tramite un iniettore. È poi la volta della tappatrice che chiude ermeticamente la bottiglia facendo in modo che nel collo non si formi una quantità di spuma eccessiva che metterebbe a repentaglio la tenuta della chiusura.

Spumosa effervescenza

In uscita dal monoblocco le bottiglie appaiono ben diverse da come vi sono entrate: hanno perso la lucentezza dovuta alla trasparenza del vetro vuoto, la loro superficie esterna appare umida per la condensa accumulata e il collo saturo di una spumosa effervescenza che quasi invita già all’assaggio.

Ma non è ancora il momento. Prima è chiamato a effettuare un controllo visivo digitale della spuma nel collo della bottiglia il dispositivo Checkmart di Krones e poi c’è da compiere un lungo tragitto tra le volumetrie dell’edificio che ospita la lunga linea di confezionamento, affinché la fila di bottiglie si presenti all’ingresso del tunnel di pastorizzazione da 56 metri fornito da Comac Group. Al suo interno la temperatura dei contenitori di vetro, sottoposti a una pioggia continua di acqua calda, sale gradualmente al picco di 65°C per poi ridiscendere nell’arco di 40 minuti circa. Si tenga presente che nel caso del prodotto confezionato in vetro ad attraversare il pastorizzatore sono sia la birra sia la bottiglia. Nel caso dei fusti d’acciaio, invece, la pastorizzazione, detta “flash”, riguarda soltanto la birra che subisce un trattamento molto più rapido attraversando uno scambiatore di calore, dopo di che viene inserita nel contenitore sanificato separatamente.

Le bottiglie entrano nel tunnel di pastorizzazione
Le bottiglie entrano nel tunnel di pastorizzazione

Ancora un paziente itinerario imposto dai nastri trasportatori, ai cui lati sono sistemati strumenti di controllo e misurazione digitale, prima che a intervenire sia l’etichettatrice Prontomatic 720-15 di Krones la cui azione è molteplice dovendo applicare con la massima rapidità etichetta appunto, retro etichetta, collarino, capsula di stagnola e altro nel caso di edizioni speciali di birra Menabrea. In seguito tocca intervenire al marcatore Videojet, che applica lotto e data di scadenza, e a un altro Checkmat Dart che controlla accuratamente l’etichetta. Il processo di confezionamento prosegue avviando le bottiglie ormai complete all’incartonatrice Altair 30 costruita da Ocme, dove giungono dopo aver compiuto una serie di curve progettate affinché possano disporsi correttamente davanti ai dispositivi metallici che le posizionano in maniera tale da trovarsi presto ben protette dai cartoni sui quali campeggia il logo della birreria più antica d’Italia.

Il robot antropomorfo

Ancora pochi metri ed ecco che i cartoni si trovano a essere “maneggiati” da un gigantesco robot antropomorfo, il Condor M4104A costruito da ACMI, che li afferra uno a uno e li dispone come impostogli dal software in modo da preparare pallet di prodotto finito alla velocità e costanza che nessun essere umano potrebbe eguagliare. Della manualità di un addetto c’è bisogno praticamente soltanto ora: si tratta di un mulettista che, a bordo di un carrello elevatore, preleva il pallet e va a sistemarlo tra la merce pronta per la spedizione. Dall’arrivo in linea delle bottiglie vuote all’intervento del mulettista sono trascorsi circa 50 minuti e come si sarà notato è la fase di pastorizzazione a richiedere la maggior parte del tempo di confezionamento. Che non è mai tutto in una fabbrica, in particolare in una di birra.

Già, perché se siamo arrivati alla conclusione del ciclo produttivo in realtà lo avevamo avvicinato quando esso si trovava in fase avanzata, con la bevanda filtrata e pronta ad attraversare i sofisticati meccanismi dell’imbottigliatrice trasferendosi nei contenitori di vetro. Contenitori che in Menabrea, come anticipato, sono di diversa foggia e volumetria. Ospitano, infatti, birre diverse per canali di vendita differenti in Italia e in 28 paesi esteri che assorbono l’8% della produzione. La vocazione internazionale e la conferma della qualità di Birra Menabrea sono certificate da prestigiosi e numerosi riconoscimenti ottenuti negli anni. Tra questi spiccano varie medaglie d’oro, d’argento e di bronzo collezionate tra l’altro al World Championship di Chicago (tra il 1997 e il 2011) e all’European Beer Star di Norimberga (nel 2005).

Il prodotto imballato in direzione del robot adibito alla preparazione dei pallet
Il prodotto imballato in direzione del robot adibito alla preparazione dei pallet

Purissima acqua alpina

Il pregio di Birra Menabrea deriva innanzi tutto dall’acqua purissima delle vicine Alpi Biellesi, note per la loro fonte profonda oltre 1.500 metri e all’attenzione nell’impiego delle altre materie prime indispensabili per ottenere prodotti di qualità con il sostegno delle tecnologie più avanzate. «Tra gli ingredienti merita ricordare i ceppi di lieviti purissimi, i malti italiani e francesi e una pregiata varietà di luppolo proveniente dalle pianure dell’Hallertau», sottolinea Franco Thedy, amministratore delegato di Birra Menabrea. Che tuttavia precisa: «Ma tutto ciò non sarebbe stato sufficiente a raggiungere i brillanti risultati ottenuti senza la combinazione con la competenza, l’impegno e la passione delle persone che lavorano in azienda anche da decine d’anni e che rappresentano motivo d’orgoglio per il marchio».

La produzione è tutta realizzata nello stabilimento che si estende su 7.500 m2, dei quali 5.000 coperti. Oltre che dall’impianto di confezionamento, buona parte della superficie è occupata da una sala di cottura in grado di lavorare 570 hl di mosto al giorno, da quattro cantine di fermentazione che ospitano fino a 9.500 hl di birra, da cantine di stagionatura che riescono a contenere fino a 9.000 hl di bevanda e da un sistema di filtraggio da 200 hl/ora.