Oggi responsabile qualità in Monini, Michele Labarile ha percorso trent’anni di storia dell’olio d’oliva italiano. Ce li racconta con la semplicità di un grande intenditore
L’Italia è la terra dei grandi vini, ma anche dei grandi oli. Spesso questo, però, lo si dimentica: l’anonima oliera sta ancora al tavolo del ristorante, come l’allettante extravergine da poco più di due euro sta allo scaffale del supermercato. A partire dagli anni ’80, molto si è fatto per promuovere la cultura dell’olio tra gli operatori e i consumatori, molto rimane ancora da fare… Michele Labarile, oggi tra i massimi esperti italiani nell’assaggio dell’olio extravergine di oliva, ha dedicato tutta la sua vita professionale alla valorizzazione di questo prodotto. È l’inizio degli anni’80 quando Michele Labarile, con una laurea in biologia, inizia a occuparsi del controllo di qualità degli oli di oliva nel C.I.O.S., Consorzio Italiano Oleifici Sociali, appassionandosi a una nuova metodica per la valutazione organolettica degli oli di oliva vergini adottata dal C.O.I., Consiglio Oleicolo Internazionale.
La conoscenza di oli provenienti dalle più disparate zone d’Italia lo porterà a collaborare con il professor Mario Solinas dell’Istituto Sperimentale per l’Elaiotecnica di Pescara, nei primissimi corsi per la formazione di assaggiatori di oli di oliva promossi dalle Camere di Commercio e dalle associazioni dei produttori in tutta Italia. Nel 1998 l’incontro con Zefferino Monini che lo chiamerà a dirigere il Controllo qualità della Monini SpA. A più di trent’anni dall’inizio di quest’avventura professionale, Michele Labarile racconta l’Italia dell’olio come l’ha vissuta.
Dottor Labarile, tutto inizia nel 1979 con una laurea in biologia in mano…
Erano anni un po’ diversi dagli attuali. Allora era realistico porsi degli obiettivi per costruire la propria professionalità. La mia nasce in un campo completamente diverso da quello oleario, un campo più attinente alla biologia. Ricordo che, non ancora laureati, costituimmo una cooperativa di biologi e di tecnici in agricoltura. Il nostro sogno era quello di lavorare per la valorizzazione delle risorse ambientali; individuammo nella piscicoltura uno strumento di reddito per i pescatori unitamente alla difesa delle risorse naturali delle nostre aree umide e dei nostri mari da uno sfruttamento insostenibile. Gli allevamenti ittici allora erano limitati alla troticoltura e all’allevamento di poche specie ittiche, ma noi giovani della cooperativa pensavamo, piuttosto, alla riproduzione in cattività di specie pregiate: spigole, orate…
La piscicoltura fu solo l’incipit.
La cooperativa estese l’attività del laboratorio inizialmente finalizzata al controllo delle acque destinate alla piscicoltura, e fu così che iniziai a occuparmi anche di analisi del vino e… dell’olio. Comincia qui la mia collaborazione con il C.I.O.S. – Consorzio Italiano Oleifici Sociali. L’azienda commercializzava oli prodotti da cooperative olearie di tutta Italia dalla Puglia, alla Sicilia, all’Abruzzo, al Lazio, a Umbria e Toscana. Di questi oli, così diversi tra loro, io controllavo la qualità.
Com’era la qualità dell’olio allora?
Certo non era paragonabile a quella attuale e anche la legislazione era meno restrittiva di quella odierna e risaliva agli anni ’60: l’olio era classificato “extravergine”, fino all’1% di acidità, “sopraffino”, fino a 1,5%, e poi c’era il “fino” con un massimo di 3,3% di acidità e infine, l’olio “vergine” in cui era ammessa un’acidità fino al 4%. Solo oltre il 4% di acidità gli oli erano “lampanti” ovvero non commestibili se non previa raffinazione, laddove oggi un olio è lampante quando supera appena il 2% di acidità!
Ma qualcosa stava cambiando…
Nel campo della tecnologia andavano sempre più diffondendosi impianti moderni di estrazione continua per centrifugazione, sostituendo quelli di tipo tradizionale per pressione, mentre nel campo della ricerca venivano messe a punto nuove metodiche per il controllo analitico della qualità e della purezza degli oli. È del 1991 il reg. n. 2568 sulle caratteristiche degli oli di oliva in cui vennero finalmente unificati a livello europeo limiti e metodi di analisi degli oli di oliva, e venne introdotto, caso unico tra i prodotti alimentari, un metodo basato sull’analisi organolettica per classificare gli oli vergini di oliva.
A questo profondo rinnovamento del settore, l’Italia contribuì allora in maniera sostanziale con il lavoro di ricercatori di grande professionalità e strutture di eccellenza come l’Istituto Sperimentale per l’Elaiotecnica di Pescara diretto dal prof. Mario Solinas, e la Stazione Sperimentale Oli e Grassi di Milano nei cui laboratori nacquero i metodi di analisi più significativi a salvaguardia della genuinità degli oli di oliva.
Cominciarono quindi i corsi di assaggio…
…in tutta Italia! Dalla Sicilia al Friuli Venezia Giulia. Durante questi corsi, oltre a focalizzare l’attenzione sui principali difetti organolettici, era possibile distinguere le note positive che caratterizzano oli di eccellenza delle diverse regioni. Gradualmente si acquisiva la consapevolezza che la sostituzione dei vecchi impianti per pressione, l’anticipare il periodo di raccolta delle olive, la meticolosità nel mantenere separate per qualità le olive e l’olio da esse prodotto, permetteva di ottenere oli perfetti nel profilo sensoriale.
Veniva recepito il messaggio?
In generale sì ma, come per tutte le innovazioni, anche con molte resistenze. Mi piace ricordare il caso di una nostra importante cooperativa di Palo del Colle nei pressi di Bari che aveva sostituito i vecchi impianti tradizionali per pressione con dei modernissimi impianti continui per centrifugazione. I soci produttori insorsero contro i propri dirigenti non riconoscendo più la “tipicità” del loro prodotto: era diverso dal solito e non lo gradivano, e tuttavia quell’olio vinse quell’anno il prestigioso premio “Ercole Olivario”. Questi nuovi impianti centrifughi, dopo la frangitura delle olive, permettevano la separazione immediata delle tre fasi, quella solida – la sansa –, dall’olio e dall’acqua di vegetazione, eliminando gli inconvenienti caratteristici degli impianti per pressione che utilizzano i fiscoli.
Negli impianti tradizionali i fiscoli non possono essere lavati tra una molitura e l’altra e questo comporta fermentazioni specialmente quando i tempi tra una lavorazione e l’altra si dilatano, per esempio in caso di maltempo o all’inizio della campagna olearia quando i conferimenti non sono massivi… L’impossibilità di un lavaggio fa sì che anche un olio prodotto da ottime olive possa risultare difettoso se i fiscoli hanno lavorato precedentemente olive di qualità inferiore, troppo mature o addirittura fermentate a seguito di uno stoccaggio inadeguato.