Tante piccole e grandi cantine hanno fatto proprie le preoccupazioni dei consumatori in materia di sostenibilità e risparmio energetico e hanno dato vita a una sorta di eco-rivoluzione che sta silenziosamente conquistando terreno
Il consumatore medio considera il vino un prodotto artigianale, legato alla terra, una bevanda senza sensi di colpa in termini di impatto ambientale. Consapevoli che questa fama non è sempre meritata, molte cantine sono impegnate, in proprio o partecipando a progetti di ampia portata a ridurre l’impatto ambientale in vigna e in produzione.
Le vie sono tante e diverse:
- ridurre l’uso di prodotti agrochimici, soprattutto in presenza di efficaci alternative;
- migliorare l’irrigazione per sfruttare al meglio l’acqua;
- impiegare al massimo le botti importate o usare solo botti prodotte localmente;
- incrementare l’efficienza delle operazioni di cantina; ricorrere a energie da fonti rinnovabili;
- considerare opzioni di packaging e di spedizione diverse in funzione delle differenti destinazioni del vino (uso quotidiano o invecchiamento).
In questo ampio quadro si inserisce la ricerca sull’utilizzo di nuovi biopolimeri ecosostenibili in vigna, in cantina e nei materiali di confezionamento.
Rinnovabile e biodegradabile non sono sinonimi
La grande famiglia dei biopolimeri comprende l’amido, la cellulosa, le proteine, i peptidi, gli acidi nucleici (DNA e RNA) e le nuove bioplastiche. In base all’origine e alle tecniche di produzione, le bioplastiche derivate da fonti rinnovabili possono essere divise in tre grandi categorie:
- polimeri estratti da vegetali (per esempio polisaccaridi come amido e cellulosa o proteine come caseina e glutine);
- polimeri prodotti per sintesi chimica usando monomeri biologici e rinnovabili (per esempio il PLA ottenuto da monomeri di acido lattico);
- polimeri prodotti da microrganismi o batteri geneticamente modificati.
Per quanto riguarda invece la biodegradabilità questi materiali possono essere suddivisi in:
- plastiche a base bio o parzialmente bio ma non biodegradabili;
- plastiche a base bio e biodegradabili;
- plastiche biodegradabili contenenti componenti di derivazione fossile per migliorarne le performance meccaniche.
La biodegradabilità è la capacità di un materiale di decomporsi nel tempo a seguito di attività biologiche che tendono a trasformare le sostanze organiche in sostanze inorganiche e si conclude con l’assorbimento nel terreno. Il processo è catalizzato dall’intervento di agenti naturali (batteri saprofiti, luce solare, umidità). Si distingue tra biodegradazione primaria o funzionale, ossia la trasformazione di una sostanza con perdita delle sue proprietà specifiche legate alla presenza nella molecola di determinati gruppi funzionali, e la biodegradabilità totale che indica la conversione completa del materiale in acqua, anidride carbonica e sali minerali.
In teoria quasi tutti i materiali sono biodegradabili, il problema è in quanto tempo si trasformano in composti chimici basilari. La legge definisce biodagradabile un materiale che si decompone del 90% entro 6 mesi. Sono invece compostabili, i manufatti che si decompongono in un processo di compostaggio. La “compostabilità” è descritta in uno standard europeo: la norma UNI EN 13432 del 2002.
Per essere compostabile un materiale deve essere biodegradabile e disintegrabile in tempi brevi, ossia deve essere trasformato dai microrganismi in acqua, anidride carbonica e compost fertile. Il manufatto deve inoltre essere compatibile con un processo di compostaggio, cioè non deve rilasciare sostanze pericolose e non deve alterare la qualità del compost prodotto.
I biopolimeri in vigna
Da diversi anni si studia la possibilità di utilizzare alcuni biopolimeri che inducono la difesa nei vegetali. Queste tecniche hanno un basso impatto ambientale, possono migliorare alcuni tratti della qualità dei vini e, a differenza dei fungicidi, raramente selezionano ceppi patogeni resistenti. Uno di questi studi ha dimostrato come in vigna un nuovo chitosano sia in grado di prevenire l’infezione da oidio, nonché di migliorare il contenuto di polifenoli e l’attività scavenger dei radicali liberi dell’uva e del vino.
La molecola (un derivato deacetilato della chitina) usata in concentrazione 0,1%, è riuscita ad attivare le difese vegetali nei confronti del fungo anche in condizioni di elevata diffusione della malattia. Inoltre il contenuto di polifenoli totali era significativamente più alto in tutti i tessuti di uva trattati con il nuovo chitosano rispetto sia ai campioni di controllo non trattati sia a quelli trattati con fungicidi. Un comportamento analogo è stato riscontrato per l’attività antiossidante.