L’idromele di Alveare Ossolano: quello che madre natura offre

La lista sarebbe sorprendentemente lunga. Molti dei cibi e delle bevande che consumiamo abitualmente sono il frutto di un affascinante processo: la fermentazione. Tra le più antiche espressioni di questa arte – accanto a vino e birra – c’è un elisir da riscoprire: l’idromele. Dall’Antico Egitto alla Grecia classica, fino alla Roma imperiale, questa bevanda ha assunto nel tempo ruoli sacri e curativi. Ma è nel Nord Europa, tra le popolazioni celtiche, che ha trovato la sua consacrazione definitiva, guadagnandosi un’aura leggendaria. I Druidi la utilizzavano nei rituali, mentre i Vichinghi la veneravano come nettare degli dèi. Simbolo di forza e immortalità. Non sorprende che ai novelli sposi venisse offerta una scorta sufficiente per un mese lunare: un augurio di fertilità, legato alle sue presunte virtù energizzanti. Il nome ne svela già l’essenza: dal greco hydor (“acqua”) e mel, mellis (“miele”). Per la maggior parte delle bevande fermentate, il principio di base è lo stesso; a cambiare è il substrato, ovvero la materia prima. Se dall’uva nasce il vino e dal malto d’orzo la birra, dal miele diluito in acqua prende vita l’idromele. Gli artefici sono i microrganismi, in particolare i lieviti, che attraverso la fermentazione alcolica metabolizzano gli zuccheri per ricavare energia. Un processo che cambia radicalmente le caratteristiche reologiche e sensoriali del prodotto, migliorandone la stabilità microbiologica e prolungandone così la conservabilità. Quasi fosse una magia, i prodotti fermentati hanno scritto le pagine più suggestive della storia alimentare dell’umanità.

Una tradizione millenaria da riscoprire

Simona Negri col marito Francesco Sfratato

È un pomeriggio di inizio luglio quando mi addentro nel nuovo punto vendita di Alveare Ossolano, in Piazza Chiossi 12 a Domodossola – nota ai locali come la “piazza dell’obelisco”. La bottega accoglie i clienti con il calore del legno e la solidità della pietra. I prodotti sono esposti come piccole gemme. Ad attendermi c’è Simona con l’entusiasmo di chi sa di aver fatto la scelta giusta: «L’idromele è una bevanda antichissima, ma in Italia è rimasta nell’ombra. La nostra identità si è radicata nel vino e nella birra: motivazioni culturali, economiche e storiche ne hanno segnato il percorso. Il vino si è intrecciato anche con la religione cristiana, mentre la birra ha conquistato le tavole a seguito delle invasioni barbariche. L’idromele, invece, è rimasto legato alle tradizioni pagane». Non è solo la tradizione culturale e la disponibilità di miele ad averne frenato la diffusione: «Per una realtà artigianale come la nostra – spiega Simona – la produzione di idromele rappresenta una sfida complessa, che richiede dedizione, tempo e risorse. Le nuove tecnologie e i metodi produttivi possono certamente agevolare il lavoro, ma il processo resta delicato, soprattutto considerando che la materia prima è il miele: ingrediente prezioso e variabile per natura. L’assenza di un terroir riconoscibile, insieme alla scarsità di disciplinari e marchi di tutela specifici, ha finora limitato la diffusione di questo prodotto. Il pubblico italiano ne ha ancora oggi una conoscenza limitata – quando non assente».

Pur essendo stata una bevanda di nicchia, attualmente nel panorama nazionale sta vivendo una piccola rinascita, o meglio, riscoperta. All’Estero il consumo è decisamente diverso: in Paesi come Francia, Germania, Romania o Bulgaria – dove la produzione di miele è più radicata – la fruizione è più diffusa e rappresenta parte integrante della cultura gastronomica.

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