Quest’anno Beeronomics è stata ospitata a Milano all’Università Bicocca grazie alla presenza del professor Christian Garavaglia, docente di Economia Industriale dell’Ateneo che della Beeronomics Society è Executive member. Quattro giorni, dal 19 al 22 giugno scorso, ricchi di conferenze e tavole rotonde con nomi di spicco del comparto brassicolo internazionale. Tra loro anche Charles Bamforth, autentico luminare in materia birraria, già presidente dell’Institute of Brewing and Distilling e per quasi vent’anni docente di Scienze e tecnologie della produzione della birra all’Università della California.
A Milano Bamforth, che oggi ricopre il ruolo di Senior Quality Advisor per il celebre birrificio californiano Sierra Nevada, uno dei pionieri della “craft beer revolution” a stelle e strisce, ha parlato dei fattori di cambiamento nella produzione birraria e nel mercato della birra con uno sguardo specifico al mercato americano e a quello britannico.
Noi di Imbottigliamento abbiamo colto, come si suol dire, la palla al balzo e abbiamo voluto rivolgergli qualche domanda in più.
Mr. Bamforth, come descriverebbe lo “stato dell’arte” della birra artigianale in questo momento? Dopo anni di forte crescita sembra che si stia attraversando, negli Stati Uniti come in Europa, una fase se non di declino perlomeno di stasi…
«È vero, le cose si sono un po’ complicate ultimamente. Da un lato, si assiste a un numero sempre crescente di birrifici che competono inevitabilmente sul mercato, dall’altro, si sta verificando un progressivo allontanamento dall’alcol, da parte soprattutto dei consumatori più giovani. In parte ciò è dovuto al fatto che ne sono diffidenti, ma è anche una questione economica. I giovani scelgono di spendere i loro limitati fondi per altre cose. Inoltre, in diversi paesi del mondo, altro fenomeno da non sottovalutare, l’inflazione ha comportato difficoltà finanziarie per molte persone, non solo i giovani. Infine, i birrifici producono un numero sempre più ampio di prodotti, molti dei quali in realtà non sono nemmeno birre. E ciò confonde il consumatore, che si sente spesso bombardato da tutta questa opportunità di scelta. A volta sembra più facile prendere un caffè…».
Dal suo punto di vista, quali contromisure si potrebbero prendere per ridare appeal alla birra, tra i giovani ma non solo… Ci sono degli aspetti sui quali la comunicazione di settore dovrebbe maggiormente focalizzarsi?
«Credo che la birra dovrebbe essere descritta come bevanda accessibile a chiunque, purché abbia ovviamente l’età legale per bere alcol. Il messaggio deve essere più serio rispetto a quello che piace a chi beve in eccesso o fa giochi con la bevanda, tipo il beer pong per intenderci. Bisogna invece sensibilizzare le persone sul fatto che la birra è una bevanda di qualità, fatta con materie prime sane, lavorate con cura. C’è una gamma di birre molto più ampia di quella di qualsiasi altra bevanda, e da qualche parte c’è una birra per tutti, anche per quelli che affermano di non amare la birra. Le persone devono essere consapevoli che la birra è molto più rilevante per l’abbinamento con i cibi grazie alla sua diversità. Così tanti cibi diversi. Così tante birre diverse. C’è un ottimo abbinamento per ogni cibo e ogni birra. E bisogna far conoscere la verità sulla situazione reale in termini di birra e salute. La birra non è solo calorie. Contiene materiali di valore nutrizionale, come vitamine del gruppo B, fibre solubili, antiossidanti, silicati e altro ancora. È necessario dire la verità sulla realtà di quegli studi che dicono che non esiste un livello sicuro di consumo di alcol. Sir David Spiegelhalter (uno dei più autorevoli statistici britannici e membro del Churchill College di Cambridge) ha messo in luce la debolezza dello studio più spesso citato, ma i giornali continuano a sfornare messaggi negativi. La verità è che si può praticamente affermare che esiste un legame tra tutto ciò che consumi e il rischio di malattia e morte. Pensa ai salumi. Alimenti con alti livelli di ammine. E l’’elenco potrebbe continuare. Eppure è l’alcol ad avere la cattiva reputazione. E di solito l’immagine è quella della birra, perché se mostri la foto di un bicchiere di vodka la gente può facilmente pensare che sia un bicchiere d’acqua. Un vino rosso potrebbe essere succo di ribes nero. Ma la birra, con la sua schiuma, è immediatamente riconoscibilmente. Quindi la birra è più facilmente associata a cattivi comportamenti o almeno a comportamenti poco salutistici. Sì, abbiamo bisogno di messaggi di moderazione: non dovresti abusare di alcol così come di hamburger o di cioccolato. È chiaro che non sia compito dei birrai promuovere la salubrità della birra. Ma è necessaria un’adeguata comunicazione da parte di persone che possano dire la verità su questi temi. Ci sono già stati degli sforzi in passato: ma è necessario che ci sia un dialogo intelligente tra gli accademici che lavorano sulle bevande alcoliche e coloro, penso soprattutto ai medici, che hanno menti aperte e che possano dire la verità sul consumo moderato di alcol».
«Bisogna sensibilizzare le persone sul fatto che la birra è una bevanda di qualità, fatta con materie prime sane, lavorate con cura. C’è una gamma di birre molto più ampia di quella di qualsiasi altra bevanda, e da qualche parte c’è una birra per tutti, anche per quelli che affermano di non amare la birra»
In Italia, ma credo non solo in Italia, la birra artigianale è stata quasi sempre raccontata come la “vera birra” in contrapposizione ai prodotti delle multinazionali. I temi ricorrenti per difendere la superiorità della birra artigianale sono la mancata pastorizzazione, il rifiuto di usare mais… Pensa che questa narrazione abbia funzionato? Anche alla luce delle più recenti cessioni di birrifici artigianali ai grandi gruppi?
«Mi dà molto fastidio l’argomentazione secondo cui le grandi aziende produttrici di birra siano il “male” e che, se un’azienda più piccola vende a una multinazionale, allora quella piccola azienda ha venduto la sua anima al diavolo. Sì, immagino che ci siano persone che credono in questo tipo di marketing, ma alla fine la qualità del prodotto sarà il fattore decisivo. Prendiamo come esempio la birra non filtrata. Personalmente preferisco di gran lunga la birra brillantemente limpida, ma ammetto che ci siano alcune birre non filtrate dal sapore eccellente, perché di solito hanno un meraviglioso aroma di luppolo. Quindi sono arrivato a tollerarle. Quello che non mi piace è quando le persone dicono bugie per giustificare la loro posizione. Prendiamo ad esempio un messaggio che circola abbastanza spesso: le birre non filtrate sono quelle più vicine a come un tempo, e per migliaia di anni, sono state tutte le birre. Solo di recente le birre sono state filtrate e questa filtrazione rimuove la bontà dalla birra. Questa è solo una stupida sciocchezza. E, naturalmente, alcuni birrai hanno detto “oh, tutto quel mais e riso vengono usati per produrre birra più economica e questa è una brutta cosa”. La verità è che il riso e il mais sono, come l’orzo e il grano, fonti di amido. Gli dei non hanno decretato che il riso e il mais siano in qualche modo fonti inferiori di amido, ma ciò non ha impedito ad alcuni birrai di dire che sono cattivi. Eppure alcuni di questi birrai aggiungono ingredienti come peperoncini, ostriche delle Montagne Rocciose o burro di arachidi alle birre e pensano di essere intelligenti…».
In uno dei suoi libri, “Grape vs Wine”, peraltro tradotto anche in italiano, ricordo di aver letto un passaggio nel quale sottolineava il fatto che usare mais nella produzione di una birra ne fa lievitare i costi. Ricordo bene?
«Riso e mais vengono utilizzati per ottenere prodotti più chiari e dal sapore delicato. E miliardi di persone in tutto il mondo apprezzano e preferiscono queste birre. Non sono persone che sbagliano! A parte le complesse operazioni di macinazione, questi cereali necessitano di una fase di cottura aggiuntiva nel birrificio che aumenta il costo del loro utilizzo. E si potrebbe anche sostenere che sono più rispettosi dell’ambiente, perché non richiedono una fase di maltazione».
«La principale forza trainante per il produttore di birra di qualsiasi marca è quella di produrre costantemente, lotto per lotto e anno dopo anno, una birra eccellente superando le variabili geografiche e stagionali intrinseche che si possono ovviamente registrare nei vari raccolti. Non si parla di vintage come nel vino. Nella birra ogni lotto è un vintage. Non ci sono scuse!»
Sempre nel suo “Grape vs Wine” sostiene che il concetto del terroir sia applicabile anche alla birra. Una tesi peraltro che condivido, ma ci può dire qualche parola in più sull’argomento?
«Non sostengo apertamente il terroir nella birra. Dico semplicemente che tra i due, birra o vino, è la birra quella più degna di messaggi relativi al concetto di terroir. I produttori di vino si preoccupano e fanno affermazioni su un ingrediente chiave, l’uva. I produttori di birra possono fare affermazioni simili sulla varietà dell’orzo, sul luogo di crescita dell’orzo, sulle condizioni di maltazione, sulla varietà del luppolo e sul luogo di crescita e, naturalmente, sull’acqua, quest’ultima con una gamma così ampia di composizioni nel mondo della birra, dalla morbidezza dell’acqua di Plzen all’acqua estremamente dura a Burton-on-Trent. La verità è che la principale forza trainante per il produttore di birra di qualsiasi marca è quella di produrre costantemente, lotto per lotto e anno dopo anno, una birra eccellente superando le variabili geografiche e stagionali intrinseche che si possono ovviamente registrare nei vari raccolti. Non si parla di vintage come nel vino. Nella birra ogni lotto è un vintage. Non ci sono scuse!».
Un’ultima domanda: ha un suo stile di birra preferito? Avesse l’opportunità di portare con sé su un’isola deserta un solo tipo di birra, quale sceglierebbe?
«Una domanda molto difficile perché, proprio come adoro cibi diversi in momenti diversi della giornata e in occasioni diverse, così è per la birra. Ma se dovessi scegliere uno stile sarebbe una English ale, cask conditioned. Ottimo sapore, gradazione alcolica di tutto rispetto, molto beverina».