Alessandro e Federico, il primo ingegnere, il secondo chimico, si conoscono nel 1999 e dopo qualche anno si appassionano all’homebrewing. Nel 2012 capiscono che devono dare una svolta alla loro vita e decidono di frequentare il corso tecnico-gestionale dell’Università di Udine. Il punto di arrivo è il birrificio, ma senza il benestare delle banche, senza il loro appoggio, come possono due giovani permettersi un investimento importante, come quello di un impianto di birrificazione? «Volevamo partire subito con il birrificio, ma per una questione d’investimenti non ci siamo riusciti. Avevamo fatto un business plan da presentare alle banche, ma non ci hanno dato fiducia. Quindi, nel 2013 siamo partiti come beerfirm, ma abbiamo cercato da subito di appoggiarci a un birrificio che ci facesse davvero lavorare all’interno. Siamo andati da Retorto perché era l’unico, tra quelli più vicini, che ci dava la possibilità di lavorare in impianto e sentire la birra che avremmo commercializzato come nostra. Dopo quasi tre anni è arrivato il finanziamento e l’esperienza di Retorto ci è stata di grande aiuto. Come beerfirm eravamo percepiti in modo abbastanza anomalo, perché non siamo andati dal miglior offerente, da quello che ci faceva pagare meno la birra, ma abbiamo scelto il birrificio in base a come lavorava, e sapevamo che Retorto lavora molto bene. Abbiamo preso questi tre anni di beerfirm come se fossero un tirocinio. Poi, sempre come beerfirm, eravamo anomali anche perché avevamo raggiunto un volume pari a tanti microbirrifici, quindi producevamo parecchio.»
Le difficoltà come beerfirm
Il movimento di birra artigianale, seppur appena maggiorenne, è già deleuzianamente striato, particolarmente ricco di differenze e differenziazioni al suo interno. Poco unito e spesso pronto a tagliar fuori anziché includere, verso le beerfirm dimostra una ferma diffidenza. «Abbiamo avuto difficoltà a vendere ad alcuni pub, perché molti decidono di non servire alla spina beerfirm. In parte, pensiamo che sia condivisibile perché i proprietari dei pub davvero avrebbero difficoltà a distinguere quali sono le beerfirm che “valgono” da quelle che invece lo fanno per moda. Noi abbiamo sempre fatto scelte chiare e siamo sempre stati trasparenti, ma c’è chi confonde le acque, per esempio facendo cotte in birrifici diversi. Ciò che non condividiamo, invece, è che ufficialmente le beerfirm non facciano parte del movimento. Molte sono già dentro, almeno quelle che lo fanno con l’obiettivo di aprire un birrificio. Non hanno i soldi per aprire un impianto di proprietà, ma fanno parte del movimento. Si sa chi lavora davvero sugli impianti, ci si conosce tutti, gli altri che nascono e muoiono nel giro di poco è selezione naturale, e non sono nemmeno interessati a sentirsi parte di qualcosa. Un’altra difficoltà come beerfirm, infatti, è essere accomunati a realtà tipo quest’ultime, molto diverse da come la abbiamo vissuta noi.»
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