Quale futuro per l’Italia olearia?

Luigi Caricato
Luigi Caricato

Immaginare il futuro dell’Italia olearia non è così facile come potrebbe apparire al primo impatto. Considerando il glorioso passato, pur tra alti e bassi, l’Italia è stata sempre protagonista di primo piano. Di fatto, avrebbe un futuro garantito. Resta però da chiedersi quale futuro sia concretamente possibile: se da protagonista, o da comparsa. Ci sono almeno due risposte che già si possono formulare, senza timore di essere smentiti. Per ciò che concerne l’olivicoltura, c’è una prima risposta, quella ufficiale, che ci tranquillizza: abbiamo finalmente il via libera per il Piano olivicolo nazionale, uno strumento operativo tanto atteso, da oltre tre decenni, nella ferma speranza che questa volta sia davvero quella buona. La seconda risposta, invece, è quella di chi conosce a fondo lo stato della realtà e sa bene che la questione è molto più complessa di quel che appare. Lo stato di progressiva involuzione della nostra olivicoltura non è tanto legato a una penuria di risorse economiche, oltre a una mancanza di strategie, quelle necessarie per il rilancio, quanto soprattutto è da imputare a un problema di mentalità: non si piantano più olivi e, in particolare, c’è perfino un ostinato rifiuto ad andare oltre la tradizione, accogliendo di conseguenza impianti più moderni e razionali, nel tentativo di abbattere gli alti costi di produzione. Sì, perché siamo produttori fuori mercato, con oli troppo costosi che il consumatore non sempre è disposto ad acquistare, a un prezzo remunerativo per chi produce, non comprendendone le ragioni, anche perché nessuno è in grado di raccontare le peculiarità del poco olio prodotto in Italia.

Così, anche se non lo si dice in giro, di fatto si sta sfaldando il comparto oleario, senza che nessuno cerchi però di reagire. Non è un allarme spropositato, il mio, ma una viva preoccupazione che può diventare un serio problema se non si registra in tempo un repentino cambio di prospettiva.

L’atteggiamento attuale dell’Italia sta tutto nella sua vocazione a lamentarsi di continuo per le troppe (ma necessarie) importazioni di olio dall’estero. Ci si lamenta invano, nonostante queste importazioni siano di fatto inevitabili, giacché l’Italia è fortemente deficitaria, non dimostrando alcuna intenzione di piantare nuovi alberi.

I numeri sono eloquenti: consumiamo circa 600.000 tonnellate d’olio e ne esportiamo intorno alle 400.000. Abbiamo pertanto un fabbisogno di circa un milione di tonnellate d’olio annue. Ne produciamo molto poco, tra le 300 e le 350.000 tonnellate. Siamo dunque fortemente deficitari, e se finora la qualità degli oli è sensibilmente migliorata, rispetto a un pur recente passato, manca soprattutto la quantità. Inoltre, aspetto non marginale, la stessa qualità non è sufficientemente competitiva, perché ottenuta con costi di produzione elevati, e non sempre giustificati. Da qui la necessità di fare il punto della situazione, per giungere a una reale e non fittizia soluzione dei problemi. D’altra parte, con tutta onestà, sono ormai decenni che si ragiona sul futuro dell’olivicoltura, ma sembra che ci si fermi solo a una enunciazione di proclami, senza mai agire con segnali di svolta concreti.

A complicare la situazione, sono le troppe comunicazioni negative, che stanno progressivamente rovinando la reputazione del comparto oleario. Si annunciano sempre frodi, contribuendo così a dividere i vari attori del comparto, mettendo gli uni contro gli altri, il tutto per un’insensata scelta di natura ideologica, creando così una grave e irreversibile frattura fra grandi, medie e piccole imprese.

Con tali atteggiamenti, è evidente il rischio che le aziende italiane impegnate a movimentare grandi volumi possano delocalizzare, andando all’estero, con i propri stabilimenti, come già qualche azienda ha iniziato da qualche anno a fare, confezionando direttamente nei paesi da cui importano l’olio, con grave danno per gli equilibri interni al Paese.

Ho cercato allora, dall’alto della mia esperienza pluriennale, quale osservatore esterno del comparto oleario italiano, di tracciare un ritratto fedele della realtà, con il dichiarato proposito di far comprendere le dinamiche future proprio a partire dalla situazione odierna.

Lo scenario contemporaneo offre, a ben guardarlo, uno spaccato inedito rispetto al passato. Le grandi famiglie dell’olio, quelle storiche, hanno ceduto o stanno cedendo il testimone. Diventate grandi, non riescono a stare sul mercato globale, pieno com’è di grandi sfide, soprattutto ora che si richiede una grande managerialità, oltre a una vocazione internazionale che richiede sedi e succursali all’estero. A resistere alla tentazione di cedere l’azienda, sono sempre in pochi. Così, accade che i pochi che ancora resistono, vanno incontro a grandi difficoltà, soprattutto in un Paese che non è affatto moderno e dinamico, con una burocrazia ostile che penalizza le aziende in maniera inverosimile. Valga oltretutto l’esempio, recentissimo, di merce in uscita trattenuta nei porti, con attese di oltre quindici giorni, per via di gravi e incomprensibili ritardi intercorrenti tra prelievo e invio dei campioni degli oli da analizzare in laboratorio. Oltretutto, c’è da osservare che si tratta di un’operazione che una stessa legge dello Stato impone ai suoi organi periferici di attuare un controllo documentale da espletare nel termine massimo di un’ora e, nel caso di accertamenti tecnici che prevedano un prelievo di campioni, con l’obbligo di non superare il termine massimo di tre giorni. L’inefficienza di tali operazioni comporta, oltre a un danno di immagine per le aziende esportatrici, anche un danno sulla qualità stessa della merce, giacchè l’olio è un prodotto delicato che non può stare sotto il sole, lasciato all’interno di un container per un tempo imprecisato.

Le problematiche sono dunque tante. Anche se poco considerate, incidono sensibilmente sulla competitività delle nostre imprese, il più delle volte abbandonate a se stesse. Dall’altro lato, anche la stessa struttura agricola resta prigioniera di se stessa, polverizzata e frammentata qual è, con in più la vocazione a rendersi sempre più piccola, coltivando l’ideologia del “piccolo è bello, sano e giusto”, impedendo così, di fatto, di aspirare a qualcosa di grande e di più funzionale.

Accade dunque che mentre i poderi agricoli si presentano eccessivamente frammentati, per ragioni storiche e strutturali, non potendo più ricomporre le unità fondiarie, nulla di fatto può cambiare per il futuro. Se lo stato della realtà olivicola non può allora mutare, per l’impossibilità che le micro-unità fondiarie tornino a essere grandi proprietà agricole, con l’attuale superficie media aziendale, non superiore all’ettaro, oggi, paradossalmente, anziché lavorare per l’unità, si sta facendo il possibile per dividersi ulteriormente, sempre di più.

Viviamo una realtà ultra-frammentata e paradossale. Se da un lato, resta tecnicamente impossibile riunire le unità fondiarie, dall’altro lato – e questa volta per una scelta volontaria – perfino l’offerta degli extra vergini si sta polverizzando. Sul mercato si stanno infatti moltiplicando i marchi e le referenze di olio extra vergine di oliva. Per cui, anziché concentrare l’offerta, la si sta disperdendo, frantumandola in migliaia di differenti espressioni. A nessuno viene l’idea di seguire il modello vincente delle mele Melinda: tanti piccolissimi produttori che conferiscono il proprio prodotto sotto un unico marchio che sa imporsi sul mercato.

Anche nello stesso ambito dei frantoi, l’Italia sta dimostrando la propria vocazione suicida, preferendo le moliture partitarie, allo scopo di non far mescolare tra loro le olive dei vari olivicoltori, contribuendo così a elevare sensibilmente i costi di produzione.

Come si può notare, i mali dell’Italia olearia sono lo specchio di un limite culturale, e chissà se non addirittura di un condizionamento di ordine antropologico, nel netto e fermo rifiuto di concentrare le proprie forze e muoversi uniti.

Vengono così meno tutte le premesse che ci porterebbero ad aspirare a qualcosa di grande. Manca oltretutto lo spirito che mosse, alla fine dell’Ottocento, e all’inizio del Novecento, le imprese olearie di cui oggi sono ancora celebri molti marchi aziendali, gran parte dei quali finiti in mani estere. Se ci pensate, gli ultimi marchi più significativi sono stati fondati subito dopo il secondo conflitto mondiale, poi, a seguire, non c’è stato nulla di così significativo.

Ciò che oggi manca, sono le famiglie che investono nell’olio con il medesimo spirito, innovativo e pionieristico, delle ex grandi famiglie dell’olio. Ex, perché la gran parte di esse ha appunto ceduto via via la proprietà a società estere.

Mancano pertanto delle realtà solide, e quelle che lo sono si rifugiano in un universo più piccolo, creando imprese agricole o di trasformazione, o imprese a filiera completa (olivo, frantoio, confezionamento, commercio) restando sempre in un’ottica del piccolo e medio, senza il coraggio di osare, e forse senza nemmeno l’arguzia e la motivazione nel tentativo di perorare la buona causa dei grandi numeri.

Tutto ciò accade proprio in un momento storico alquanto favorevole, vista la diffusione, sempre più estesa verso nuovi mercati, del consumo degli oli da olive. Intanto, le opportunità attuali, offerte da un mercato globalizzato, vengono abilmente valorizzate e messe a profitto da altri imprenditori, ma di area anglosassone o asiatica. Per il resto, solo gli spagnoli investono.

Lo stato della realtà è questo. Ciò che è venuto meno in Italia, è la forza imprenditoriale e la volontà di investire. C’è una vera e propria desertificazione, uno stato di quiescenza e un diffuso sentimento di paura del futuro, e forse, a essere proprio sinceri, anche un complesso di inferiorità, non riuscendo più ad aspirare (volutamente) a una logica di supremazia, così come avveniva invece un tempo.

Non c’è più fame di futuro e nessuna voglia di imporsi. Fin qui, il tutto può apparire ininfluente sulle dinamiche future, ma un simile atteggiamento di rinuncia porterà comunque al depotenziamento, se non addirittura all’annullamento della nostra olivicoltura. Se non ci saranno grandi marchi italiani, non ci sarà una olivicoltura fiorente.

L’unica ancora di salvezza potrebbe essere la delocalizzazione, non solo delle imprese confezionatrici, ma anche di quelle olivicole. Molti investitori esteri stanno puntando sull’olivicoltura africana, ma sono pochi gli italiani che si prodigano a farlo.

Forse questo atteggiamento remissivo porterà a una olivicoltura marginale, con il disastro che può determinare il progressivo abbandono dei campi, e in particolare di quelle aree più impervie, collinari e montane.

Ci si concentrerà sui piccoli numeri, quelli di alta qualità, seppure poco influenti nel complesso, giacché poco competitivi in relazione al prezzo finale del prodotto. Già, perché l’altro grosso limite italiano, è la mancanza di investimenti. Il nuovo scenario che si va prefigurando non è roseo, se non vi sarà una seria presa di coscienza seguita da una svolta.

Il Piano olivicolo nazionale non potrà risolvere problematiche di natura sociologica, antropologica e culturale. Non è una questione di mancanza di fondi, ma vi è un irrisolto problema di natura anche psicologica, troppo ancorati come siamo all’idea di una olivicoltura assistita.

Riteniamo, a torto, che la svolta possa essere la conseguenza di generose elargizioni pubbliche al fine di sostenere l’impegno economico necessario per la ripresa, ma non è così. Negli ultimi decenni non sono mancate le risorse economiche pubbliche destinate al settore: sono state semplicemente investite male, oppure non portate a compimento.

Il limite irrisolto dell’Italia olearia – e lo ripeto in continuazione da anni, inascoltato, è soprattutto di ordine culturale. Si sta di fatto arretrando perché non si riesce a trarre il giusto reddito. A causare un ulteriore danno, è la disunità, oltre poi all’estrema conflittualità interna al comparto, tra i vari soggetti che non riescono a dialogare, nonostante accordi di facciata. C’è inoltre un’eccessiva e smodata burocratizzazione, ma soprattutto una politicizzazione spinta all’eccesso, che, anziché far decollare il comparto, lo deprime. Ci sono troppe leggi per tutelare il Made in Italy, segno evidente di una disfatta, perché la vera tutela nasce non da imposizioni piovute dall’alto, a opera di chi è estraneo al comparto, ma da una posizione di dominio del mercato. Se non si è in grado di concorrere e competere, a poco servono le leggi. Un caso eclatante è il fallimento dello strumento delle attestazioni di origine, DOP e IGP. Abbiamo avuto la possibilità di far valere le varie anime dell’olivicoltura, ma le abbiamo sacrificate per l’inadeguatezza di coloro cui abbiamo affidato il compito di gestire un patrimonio così importante. Oggi la nostra forza, come Sistema Paese, appare piuttosto debole e inconsistente.

Eppure, per il futuro, abbiamo tutte le carte in regola per farcela, abbiamo talenti e anche imprenditori illuminati. Purtroppo, tutti questi talenti sono ottimi solisti che litigano tra loro e non si sostengono a vicenda. Ci manca soprattutto l’orchestra, oltre alla capacità (e la fermezza) di un direttore che sappia tenere uniti e gestire tanti inefficaci e inespressi talenti. Forse, se si lasciassero le redini del comparto agli imprenditori puri, anziché alle loro organizzazioni, il futuro potrebbe cambiare. Forse.