Inchiesta

Ocratossina A, pericolo sempre in agguato

L’imposizione di un contenuto massimo, ma soprattutto un codice di buone pratiche vitivinicole stilato dall’OIV ha arginato, ma non definitivamente risolto il problema ocratossina A nel vino. Importante ora è non abbassare la guardia, soprattutto nelle regioni più a rischio.

Il problema dell’ocratossina A (OTA) nel vino è ben lungi dall’essere risolto, anche se importanti passi avanti sono stati compiuti dall’inizio del nuovo millennio a oggi per contenerne la presenza. In un recente studio compiuto dall’Università di Navarra su vino proveniente da diversi Paesi mediterranei, in tutti i 96 campioni esaminati è stata rilevata la presenza di OTA (livelli medi pari a 455 ng/L) sempre accompagnata, seppure in quantità notevolmente più basse, da ocratossina B e ocratossina C. In maniera inaspettata, la latitudine non è risultata un fattore sensibile per la maggiore o minore presenza di micotossine nei campioni analizzati, eccetto per i vini africani, i quali hanno sempre registrato valori superiori alla media. Lo studio ha, inoltre, fatto il punto sui più recenti metodi di cantina per ridurre il contenuto di ocratossina nel vino in bottiglia, confermando l’efficacia dell’impiego di chiarificanti e sottolineando come i metodi microbiologici rappresentino oggi la nuova frontiera, tutta da indagare, per arginare efficacemente il problema.

Origine e diffusione

Di OTA se ne parla dalla fine dello scorso millennio. La Commissione del Codex Alimentarius ha altresì evidenziato come il vino rappresenti, dopo i cereali (45-50%), la principale fonte di contaminazione da OTA per l’uomo (10-20%). Le ocratossine sono micotossine prodotte dal metabolismo di numerose specie del genere Aspergillus e Penicillium, tra queste l’OTA presenta la maggiore tossicità ed è stata classificata nel 1993 dallo IARC, il Centro Internazionale della Ricerca contro il Cancro, di classe cancerogena 2B (pericolosa per gli animali e con buone probabilità per l’uomo). Potente nefrotossina, potenziale agente cancerogeno per l’uomo, l’OTA è in grado di inibire la sintesi proteica, induce la formazione di radicali liberi, è un potente agente teratogeno e ha un’importante azione immunosoppressiva. Isolata per la prima volta nel 1965 da Van der Merkwe et al. da un ceppo di Aspergillus ochraceus − da qui il nome “ocratossina” − l’OTA è stata in seguito associata al metabolismo di diverse specie di Aspergillus, tra queste la classe Nigri e in particolare la specie A. carbonarius, considerato oggi tra i funghi a maggior capacità produttiva di OTA.

Sud Europa, habitat naturale

Aspergillus carbonarius è un fungo termofilo che trova il suo habitat naturale nell’Europa meridionale. La sua capacità di sviluppo è legata a particolari fattori ambientali quali la temperatura − compresa tra 12 e 39°C − l’umidità dell’aria − 72-90% − ma anche la natura del substrato, i danni meccanici al frutto. Una maggiore incidenza è stata osservata nelle zone calde e nei vigneti di pianura più vicini al mare e con altitudine inferiore ai 200 metri; da uno studio realizzato dalla società Foulon-Sopagly si sottolinea una maggiore contaminazione dei mosti in annate piovose, in particolare nei mesi di agosto e settembre. La produzione di OTA da parte di Aspergillus carbonarius avviene solo nel momento in cui il fungo entra in contatto con la polpa dell’uva, determinante, per questo, è la presenza di macro e micro lesioni degli acini dovute a tignola, oidio o ad eventi abiotici (ferite provocate da tecniche colturali e operazioni di potatura); anche melate zuccherine prodotte dall’attacco di cocciniglie e cicaline possono favorire l’insediamento del fungo. Produzioni elevate di OTA possono manifestarsi anche in caso di cattivo stato sanitario delle uve o di uno stadio di maturità molto avanzato.

Superare l’emergenza

Michele Borgo, vicepresidente della commissione viticoltura dell’OIV

Agli inizi del nuovo millennio, attraverso il regolamento CE 123/2005 del 26 gennaio 2005, l’Ue ha sancito il contenuto massimo di OTA nei vini, nei mosti e nei succhi d’uva, pari a 2 μg/l, limite già fissato da parte dell’OIV – Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino con la Risoluzione CST 1/2002, la quale richiedeva anche la stesura di un codice di buone pratiche vitivinicole per prevenire i rischi di contaminazione da OTA dei prodotti della vigna, codice che è stato emanato con la risoluzione Viti-Oeno 1-2005 “Codice di buone pratiche vitivinicole per limitare al massimo la presenza di ocratossina A nei prodotti derivati dalla vite”. Ma quali sono le pratiche colturali ed enologiche volte a ridurre la presenza di OTA nel vino? Il dottor Michele Borgo, vicepresidente della commissione viticoltura dell’OIV, si è occupato a lungo degli aspetti agronomici per la prevenzione di contaminazioni da OTA. «Dopo le evidenze emerse attraverso diversi studi scientifici sul contenuto in OTA di alcuni vini, si è cercato d’individuarne le cause. E questo a partire dal vigneto. Numerosi sono stati i lavori di ricerca finanziati che hanno innanzitutto permesso di comprendere quali fossero i siti a maggior rischio epidemico. È emerso che gli ambienti caldi dell’Italia Meridionale, con notti umide se non nebbiose in prossimità della vendemmia, erano i più sensibili al problema OTA, evidenziando come epicentro epidemiologico la Puglia e riscontri via via meno importanti salendo verso le regioni del Centro-nord. È stata poi individuata la specie principalmente responsabile della contaminazione da OTA nel vino, cioè Aspergillus carbonariusLo studio più approfondito del biochimismo e dei comportamenti di questo fungo ha altresì evidenziato che la sua presenza sulle uve non è sintomatica di produzione di ocratossine, la quale è favorita da particolari condizioni di stress fisiologico per i funghi tossinogeni».